Maria Laura Manzone
Chiavari, 12 maggio 2020
In un’epoca come questa in cui viviamo dove si vuole semplificar tutto, siamo portati a cercare soluzioni lineari e a scartare percorsi più difficili e complessi. E’ la situazione in cui ci si trova oggi quando leggiamo gli articoli dei giornali che si occupano del caso di Silvia Romano dal punto di vista della psicologia. E’ un peccato perché il cervello, il miglior personal computer che esista, sarebbe in grado di elaborare prospettive ad ampio spettro e e mettere a punto giudizi conclusivi tanto armonici quanto contrastanti tra loro.
Come sia possibile, per un essere umano, sopravvivere a mesi di segregazione inflitta a tradimento, senza morirne, resta un mistero. La segregazione di un ostaggio è una condizione di dramma inimmaginabile. Eppure la storia è piena di biografie. Le abilità di adattamento dell’uomo, fisiche e psichiche, sono straordinarie. Lo si capisce non certo semplificando ma anzi guardando le immagini di Silvia Romano che, colorata, scende le scale dell’aereo a Fiumicino e poi, sorridente, saluta.
Il caso della giovane volontaria milanese va analizzato senza semplificazioni, altrimenti si rischia – come sta accadendo – di complicare assai le cose.
Il trauma è un evento imprevisto ma possibile e, per semplificare, si può dire sia l’unico accadimento esterno che la scienza psichiatrica ufficiale, ateorica, quella dell’American Psychiatric Association, ammette come causa identificabile di malattia psichica.
Del resto tutti, dallo scienziato più rigoroso al buon senso comune, accettano che l’irrompere di un accadimento violento inatteso sia in grado di scardinare il sistema mente cervello, dai meccanismi biologicamente determinati all’architettura emotiva più intima e personale.
E tuttavia, anche in questo caso, parlare in automatico di malattia sarebbe una semplificazione.
La diagnosi in medicina corrisponde a criteri che solo gli esperti devono maneggiare. Ciò a dispetto di un linguaggio attuale che tende alla medicalizzazione, anch’esso semplificando in modo non certo casuale, la “fobia” del virus, il “delirio” del contagio, la “mania” dei tamponi.
La patologica reiterazione del trauma, i disturbi della memoria e del sonno, i flash backs, l’insostenibile sentimento di colpa, i disturbi del comportamento tipici delle sindromi post traumatiche sono stati descritti nella letteratura scientifica così come nei romanzi e nel cinema, come vite condotte nell’angoscia e concluse nella disperazione.
L’abbruttimento dell’animo umano in condizioni di deprivazione è talora inevitabile. Ed anche è stata identificata la Sindrome di Stoccolma, una versione soft della patologia che forse la sfiora, ne ricalca alcuni segni ma con un significato diverso, non ascrivibile alla malattia vera, tanto da non essere classificata fra i disturbi psichici, in fondo una creazione di chi la osserva più che di chi la vive.
Ed è questo il punto. Osservare Silvia Romano viva e luminosa ha spiazzato tutti noi.
Siamo stati scardinati non dal trauma ma dall’empatia che non si può semplificare, non si può etichettare, non è una malattia, né un disturbo, né una sindrome, non si può curare ma smuove l’intera psiche, mente e cervello, e, ci piaccia o no, rimanda ad argomenti complessi che avevamo tentato di tralasciare quali la condivisione, il rispetto ed il silenzio.
Maria Laura Manzone
Primario di psichiatria all’ospedale di Chiavari
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