Cornelia I. Toelgyes
25 aprile 2020
Conosciamo tutti le pagine internet dove possiamo vendere oggetti che non ci servono più. E come merce è stata trattata in Libano un giovane collaboratrice domestica nigeriana.
A Beirut il suo datore di lavoro ha messa in vendita su un noto social network. “Ragazza trentenne, nigeriana, molto pulita, attiva, documenti in regola, vendesi per 1.000 dollari”.
L’autore del post è stato arrestato dall’intelligence libanese (Lebanon’s General Security agency). L’uomo, sembra si chiami Wael Jerro, è ora indagato e l’Agenzia ha messo in allerta gli utenti del cybermarket: “Chiunque mette in vendita online persone viola le leggi contro la tratta di esseri umani”.
L’annuncio è stato ora rimosso, in rete circolano comunque gli screenshot e molti cittadini nigeriani, nonché le autorità di Abuja, hanno gridato allo scandalo, tanto da attirare l’attenzione del ministro della Giustizia libanese, Marie-Claude Najem, che ha immediatamente ordinato agli agenti dell’Intelligence di occuparsi del caso. Dal canto suo il ministro del Lavoro ha detto che è assolutamente vietato inserire annunci online riguardanti collaboratici domestiche.
In Libano le colf straniere non godono di nessuna protezione, sono escluse dai diritti dei lavoratori. A tutt’oggi per questa categoria viene ancora applicata la Kafala, che vincola la loro residenza legale alla relazione contrattuale con chi l’ha assunta. Ciò significa che un migrante non può cambiare impiego senza autorizzazione del datore di lavoro. Se un dipendente rifiuta, decide di abbandonare l’abitazione senza il consenso del padrone, rischia di perdere il permesso di soggiorno e di conseguenza il carcere e l’espulsione.
Un sistema che equivale a una forma di moderna schiavitù. Nel Paese dei cedri vivono attualmente 250.000 colf, per lo più provenienti dall’Africa sub-sahariana (Nigeria, Ghana, Etiopia e altri), ma provengono anche dall’Asia (Nepal e Filippine). Non di rado le giovani donne subiscono violenze e abusi di tutti generi, proprio perchè non sono protette da nessuna legge. In un suo rapporto di un anno fa Amnesty international aveva chiesto esplicitamente l’immediata abolizione della Kafala in Libano.
La direzione della sicurezza generale – un’agenzia di intelligence libanese – ha fatto sapere che ogni settimana muoiono almeno due colf. Non di rado le ragazze, per sottrarsi agli abusi del datore di lavoro, e nella disperazione scelgono vie di fuga assai pericolose, come saltare dalla finestra di un appartamento situato magari a piano elevato, finendo a terra rovinosamente, gravemente ferite o addirittura morte.
Il 14 marzo scorso è stato trovato il corpo di una giovane ghaniana, Faustina Tay, nel parcheggio sottostante all’appartamento del 4° piano di proprietà del suo datore di lavoro. Solo il giorno precedente aveva contattato un gruppo di attivisti di This is Lebanon, nonchè suo fratello in Ghana, manifestando il suo grande disagio per i ripetuti abusi da parte del “padrone” e dell’agente che l’aveva fatta venire in Libano. Aveva detto di sentirsi in pericolo di vita. Diciotto ore dopo la ragazza giaceva esanime sull’asfalto.
Un medico legale ha stabilito la causa della sua morte: un trauma cranico, causato dalla caduta da un’altezza piuttosto elevata. Nessun segno di maltrattamenti. Il caso è stato archiviato come suicidio.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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