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Massimo A. Alberizzi
Mambrui (nord di Malindi, Kenya), gennaio 2020
Riuscire a capire cosa è successo a Silvia Romano e dove sia la ragazza ora, è veramente complicato e difficile. E poi le autorità, che ostinatamente mantengono uno stretto riserbo, non aiutano a capire. Anzi sembra che boicottino ogni tentativo di cercare e trovare la giovane. Come se la sua vicenda nascondesse un segreto di Stato.
Ebbene, così ho cercato di ricostruire almeno le prime fasi del suo rapimento parlando con chi l’ha inseguita e cercata subito dopo quel maledetto 20 novembre 2018, quando un commando di delinquenti l’ha portata via da quei bambini che amava tanto.
Mi avevano detto che un gruppo di guardia parco del KWS (Kenya Wildlife Service) meno di un ora dopo il ratto si era messo sulle tracce di rapitori e rapita. Li ho cercati e questo è il loro racconto: “Quella sera improvvisamente è cominciata una pioggia torrenziale e Silvia è stata portata via in canottiera, shorts e, soprattutto, senza scarpe o ciabattine. I rapitori hanno trasportato la ragazza caricandola sulle spalle. Hanno attraversato il fiume Galana quasi in secca e dall’altra parte hanno trovato due moto che avevano ben nascosto nella foresta qualche giorno prima”.
“Hanno caricato Silvia – raccontano – e sono partiti verso la costa. Dopo un paio di chilometri o poco più sono stati costretti a fermarsi: impossibile proseguire. La pioggia aveva trasformato la pista in un acquitrino. Così i rapitori, scesi dalle moto con il loro ostaggio, hanno dovuto proseguire a piedi in un bosco di acacie spinose e rovi. Quei sentieri sono pieni di insidie non solo per i piedi, se si cammina come lei scalzi, ma anche per il corpo che si riempie di graffi e tagli. Occorre sempre indossare una camicia e pantaloni piuttosto pesanti. Silvia era a braccia e gambe scoperte”.
“Noi siamo arrivati alle moto pochi minuti dopo che le avevano abbandonate – prosegue quello di loro che sembra il capo -. Il motore era ancora caldo e abbiamo subito contattato le cellule della polizia e dell’esercito sguinzagliate alla ricerca della ragazza, avvisandole che eravamo sulle loro tracce e li avremmo raggiunti da lì a pochi minuti. Invece inspiegabilmente siano stati bloccati: ci hanno ordinato di aspettare i rinforzi. Al loro arrivo i rapitori con l’ostaggio si erano già dileguati”. Siamo alla fine di novembre 2018; Silvia è stata rapita il 20 novembre.
Le ricerche per individuare il luogo dove si sono rifugiati i rapitori e il loro ostaggio proseguono. I guardia parco decidono di arruolare per le ricerche un bracconiere, anzi loro dicono un ex bracconiere, che conosce a menadito tutti i sentieri e i percorsi, più o meno segreti utilizzati dai cacciatori di frodo per sfuggire alla polizia, all’esercito e agli uomini del KWS.
Ali (il nome è di fantasia per motivi di sicurezza) accetta di aiutarli e da solo vaga di villaggio in villaggio alla ricerca di notizie. Individua il gruppo di sequestratori e li contatta. Loro lo avvisano che Silvia è gravemente ammalata, ha la febbre e delira e lo incaricano di procurare delle medicine, vorrebbero antibiotici.
Nel frattempo, all’insaputa di tutti, sono cominciate le trattative tra rapitori e autorità italiane. Un gruppo di 007 e arrivato da Roma e si è installato a Garsen, ospite di una piccola guarnigione dell’esercito keniota (KDF, Kenyan Defence Forces). Ali va da loro a chiedere le medicine e, invece di ottenerle, viene denunciato dagli italiani ai kenioti che l’arrestano. I rapitori, non vedendo più tornare il loro contatto, scappano e fanno perdere di nuovo le tracce.
Pur senza l’aiuto dell’ex bracconiere, i ranger guardiaparco continuano le loro ricerche, battono a tappeto tutta la zona in un triangolo compreso tra Malindi, Garissa e Lamu. Nel loro vagare di villaggio in villaggio su tutto quel territorio, poco prima di Natale 2018 si imbattono in un gruppo di pastori che raccontano: “La ragazza bianca è stata qui. L’abbiamo rifocillata e le abbiamo offerto del latte. Stava male, malissimo. Aveva la febbre alta. Era ridotta proprio ai minimi termini. Senza medicine non può avercela fatta.” Da quel momento si perdono tutte le tracce di Silvia. Siamo sotto Natale 2018, un mese dopo il rapimento.
Il giorno dopo questa intervista, poco più di una settimana fa, a Malindi mi arriva la notizia da una fonte autorevole italiana. Non ho potuto verificarla, ma in sostanza dice: “Silvia è viva, sta bene ed è in Kenya”.
Naturalmente si scatenano le ipotesi più complicate e inverosimili. A Lamu c’è una base americana che, tra gli altri ha un compito preciso: monitorare i movimenti sospetti, leggi islamisti, in quella fascia di territorio keniota ai confini con la Somalia. I villaggi da queste parti pullulano di agenti al servizio dei servizi segreti americani.
Francamente sembra molto strano che gli americani quindi non sappiano nulla del rapimento di Silvia. E’ verosimile invece ritenere che abbiano seguito la vicenda con un certo interesse. Pensare quindi che possano essere siano stati gli americani a salvare Silvia dalle gravi sindromi che l’hanno aggredita durante le prime fasi del suo rapimento, non è una supposizione del tutto peregrina. Un’ipotesi che tra l’altro concilierebbe le informazioni che abbiamo a disposizione finora: che la volontaria milanese sia stata gravemente malata (come hanno raccontato i pastori) e che sia guarita (come sostiene la nota della fonte autorevole, impossibile però da verificare) e ora sia viva in buona salute in Kenya.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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