AFRICA

Silvia, non molliamo e se lo Stato non ti cerca, ti cerchiamo noi

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Speciale per Senza Bavaglio
Massimo A. Alberizzi
Milano/Nairobi, 25 dicembre Natale 2019

Ciao Silvia. Ci risiamo. E’ Natale e tu ci manchi. Manchi alla tua mamma Francesca, al tuo papà Enzo, a tua sorella Giulia e al tuo cagnolino Alma. Ma anche alle tue amiche, ai tuoi amici. E a tutti noi. Non abbiamo idea di dove tu sia e soprattutto con chi tu sia in questo momento. Qualcuno parla di un nascondiglio segreto dove ti avrebbero portato in Somalia, ma tutte le ricerche che abbiamo fatto lì sono state negative.

Sai, io conosco bene l’ex colonia italiana. Ci ho passato diversi mesi e conosco un bel po’ di gente. Devo dire con grande gratitudine, che in tanti mi hanno aiutato a cercare di capire se tu sei nascosta da qualche parte.

Silvia Romano con il suo cucciolo, Alma

Niente. Le ultime notizie mi sono arrivate qualche giorno fa. Il mio amico Ali Nur (il nome, scusa, è di fantasia per evitare ritorsioni e vendette) mi ha raccontato di aver contattato diversi capi shebab (i miliziani islamici somali) e quando gli ha chiesto informazioni su di te si sono tutti trincerati dietro un “No comment” significativo. Ma conosco i somali. Non ti diranno mai: “Non so nulla”. Ammiccheranno ostentatamente per farti credere che sanno qualcosa, salvo poi, messi alle strette dagli avvenimenti, potranno sempre sostenere di non aver detto niente di importante e significativo o che l’interlocutore ha capito male.

Silvia, ci troviamo davanti a uno Stato che sta tentando di depistare, di sviare le indagini e anche impedirle. Per il semplice motivo che non è stato in grado di effettuare indagini serie e incisive.

Lo Stato assicura, “Stiamo lavorando, lasciateci in pace”, chiede una fiducia cieca che sta dimostrando di non meritare. Dovrebbe riempire con le risposte appropriate una serie di domande che noi – e l’opinione pubblica più informata – ci poniamo.

Silvia e il suo sorriso smagliante

Per esempio perché viene sbandierata ai quattro venti (unica informazione ufficiale) la “fattiva” collaborazione tra autorità keniote e quelle italiane, mentre invece ai carabinieri del ROS è stato permesso di visitare il villaggio dove sei stata rapita, Chakama, e il tuo alloggio solo il 23 agosto scorso, cioè 9 mesi dopo che ti hanno portato via?

Sanno qualcosa gli investigatori italiani del file con la tua fotografia e le tue impronte digitali (quelle che ti hanno raccolto all’aeroporto di Mombasa quando sei tornata in Kenya all’inizio di novembre 2018) scomparso dall’archivio della polizia aeroportuale?

E poi che fine ha fatto la denuncia che tu hai presentato alla polizia di Malindi contro un prete anglicano sospettato di pedofilia? Quella denuncia, di cui tu racconti durante un colloquio telefonico con le tue amiche, è scomparsa e l’investigatrice che l’aveva raccolta ha sostenuto con me di averla trascritta su un suo block notes personale ma siccome tu non le avevi fornito i nomi delle ragazzine molestate, né quello del religioso, ha pensato bene di non trascriverla sul brogliaccio ufficiale.

Qualche giorno fa mi sono rivolto ai giudici in Kenya chiedendo se hanno tue notizie. Hanno riposto: “No. Non abbiamo nessuna informazione. Preghiamo per un miracolo di Natale”. Sì, Silvia siamo tutti addolorati per la tua sorte e il silenzio delle autorità è inquietante e sospetto.

E poi c’è la storia di Ibrahim Adhan Omar uno dei tre a processo per il tuo rapimento: ha pagato la cauzione (anzi, qualcuno ha pagato la cauzione per farlo uscire di galera) ed è sparito. “Lo stiamo cercando”, assicurano alla polizia keniota ma una voce insistente (ripeto però una voce, non una notizia certa) sostiene che sia stato ammazzato per tappargli la bocca e impedirgli così di raccontare tutto quello che sa sulla tua vicenda. Se la voce dovesse trasformarsi in una informazione verificata sarebbe un ulteriore lemma nell’elenco dei misteri che avvolgono il tuo rapimento.

Ma è stato aperto anche il capitolo cocaina. Mombasa è una base di stoccaggio della polvere bianca che arriva dal Sud America e vieni poi smerciata in Europa, Asia e Stati Uniti. In aprile scorso a New York c’è stato un grande processo contro gli esponenti di una influente famiglia keniota di origine indiana accusata di un ingente traffico (poco meno di due tonnellate) di droga. Silvia nel luglio 2018 ha soggiornato a Likoni, un sobborgo di Mombasa, e ha conosciuto, suo malgrado, diversi potenti di quella regione del Kenya. Silvia è giovane, entusiasta ed eticamente motivata. Potrebbe aver visto qualcosa e aver pensato di denunciare malefatte e in genere comportamenti illeciti. Nelle carte di quel processo a New York si parla anche di un italiano frequentatore del Kenya coinvolto nel traffico di cocaina. Gli agenti italiani impiegati all’Interpol conoscono questa vicenda, le carte gliele abbiamo consegnate noi di Africa Express, ma finora non si sa nulla delle loro indagini: non si sa neppure se il nome di quest’italiano sia stato individuato. Potrebbe essere questa la chiave del tuo sequestro, Silvia.

Il 20 novembre scorso, anniversario del tuo rapimento, sono stato intervistato da diverse radio e televisioni. Mi hanno chiesto in tanti di conoscere lo stato delle indagini. Ho partecipato a tavole rotonde virtuali: un’ora a SkyTg24, e poi a Radio 24, Rete 4, tempi minori a TG Com, emittenti private nazionali e locali. E poi sul Fatto Quotidiano hanno ospitato diversi articoli. C’è stata anche la richiesta della Farnesina di non mandare in onda una mia intervista di oltre mezz’ora che era già pronta e confezionata. Perché tanta caparbietà censoria? Cosa nascondono i diplomatici di questo Paese che la gente (forse meglio chiamarli sudditi?) non deve sapere.

Silvia e il suo amico fisioterapista Alfred Scott fotografati a Mombasa

Probabilmente è stato il nostro ministero degli Esteri a chiedere alla tua famiglia di non partecipare alle udienze del processo in corso a Malindi contro tre dei presunti rapitori. Eppure i giudici mi avevano espressamente invitato a scongiurare la madre di venire in Kenya, perché potesse guardare in faccia gli imputati e indurli così a fornire tutte le informazioni possibili per rintracciare la figlia.

Inutile spiegare che senza Ilaria, la sorella di Stefano Cucchi che ha cercato testardamente e puntigliosamente la verità, la morte del fratello sarebbe ancora addebitata a un malore o a un’overdose. Inutile spiegare che ci troviamo davanti all’eterno conflitto tra il giornalismo serio e responsabile che non abdica alla sua funzione di ricerca ostinata e cocciuta della verità e il potere, che fa della ragion di Stato uno dei motivi della sua ragion d’essere. Ilaria Cucchi non solo ha preteso che sul fratello non calasse un complice velo di silenzio ma con la sua tenace richiesta ha smantellato il prestigio di un’istituzione centenaria come quella dei carabinieri.

Un altro Natale senza di te, Silvia. E davanti a noi la vergogna di uno stato silente.

Per fortuna non siamo come quei giornalisti che si accontentano della verità ufficiale, che scrivono articoli e libri senza magari neppure muoversi dalla loro comoda poltrona. Ci hanno dato degli “irresponsabili” perché abbiamo indagato, perché abbiamo informato, perché abbiamo onorato il nostro lavoro cercando la verità. E a chi ci ha consigliato di lasciar perdere di non mettere a rischio la nostra vita “per una ragazzina incosciente che se l’è andata a cercare”, rispondiamo così: “Silvia non molliamo e ti vogliamo trovare”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi      

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maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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