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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 19 novembre 2019
Domani sarà un anno da quando Silvia Romano, la ventiquattrenne volontaria milanese che si occupa dei bambini diseredati in Kenya, è stata rapita a Chakama, un povero villaggio a un’ottantina di chilometri da Malindi. E domani, nel giorno dell’anniversario del sequestro, in Kenya riprenderà anche il processo. Ma ad andare avanti è anche, finalmente, l’inchiesta della procura di Roma. I tasselli dell’indagine dei carabinieri del Ros, coordinati dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco, sono legati all’analisi dei documenti messi a disposizione dei nostri inquirenti dalle autorità keniote nell’agosto scorso (con un certo ritardo), in particolare verbali e tabulati telefonici: la ragazza – questa ormai è la certezza dei magistrati italiani – si trova in Somalia nelle mani di un gruppo legato ai terroristi di Al Shebab. E a provarlo sarebbero anche i contatti telefonici captati tra gli autori materiali del rapimento, un commando di almeno 7 persone (sotto processo in 3), e loro contatti in Somalia, nei giorni subito successivi al 20 novembre, giorno del sequestro. Ma in Kenya gli inquirenti sentiti da Africa ExPress non ne sono convinti: “Per capire d0v’è Silvia, occorre prima capire chi sono i veri mandanti, chi ha ordinato il sequestro”.
Sono stati gli stessi tre presunti rapitori a processo (Ibrahim Adhan Omar, libero su cauzione, scappato e ora irreperibile; Moses Lwali Chembe, a piede libero per aver pagato la garanzia; Abdullah Gababa Wario, in carcere) a confessare com’è nata la vicenda. Reclutati da Said Adhan, l’uomo che avrebbe pianificato il sequestro, con lui hanno pattuito un compenso di 100 mila scellini (più o meno 890 euro). Said Adhan è stato per ben tre volte a Chakama e ha dormito nella guest house Togo, di fronte a quella dove abitava Silvia, affittata dalla sua organizzazione Africa Milele. Said Adhan, keniota di etnia somala orma, è attivamente ricercato dallo scorso gennaio, ma risulta scomparso. Una delle sue mogli, Rukia, abita in un villaggio poco a nord di Malindi, Gersen, verso il confine con la Somalia: dice che il marito non si fa vedere da più di un anno. Proprio a Garsen hanno soggiornato in gennaio, cioè dopo il rapimento due volontari italiani colleghi di Silvia.
Gli imputati hanno poi confermato che a prelevare la volontaria italiana sarebbero stati in sette. Said Adhan, il capo, avrebbe caricato la ragazza in spalla e tutti assieme hanno guadato a piedi il fiume Galana, al di là del quale avevano lasciato due motociclette. Quattro sono saliti in sella assieme a Silvia e si sono allontanati, dando appuntamento agli altri tre per l’indomani, e assicurando che avrebbero pagato il pattuito. Invece sono scomparsi, lasciando i tre complici a bocca asciutta.
Secondo fonti vicine al governo somalo, esisterebbe un video che mostra Silva prigioniera. Nel video si vedrebbe un villaggio somalo, ma non è detto che sia in Somalia, giacché i somali vivono a cavallo del confine, e non c’è traccia di una conversione forzata all’Islam della ragazza né tantomeno di un suo matrimonio musulmano. Il filmato sarebbe nelle mani dei nostri agenti in missione nella capitale somala. Ma alla richiesta di fornire almeno un fotogramma del girato, per avere la sicurezza che esiste davvero, la risposta è stata evasiva.
Gli inquirenti stanno valutando l’ipotesi di inviare una rogatoria internazionale alle autorità somale. Ma il governo di Mogadiscio, va ricordato, a malapena controlla Villa Somalia, il palazzo presidenziale, e certamente non è in grado di onorare una richiesta di rogatoria. La Somalia è un Far West impazzito dove imperversano bande armate di tutti i generi e dove nessuno controlla niente.
Piuttosto, voci più insistenti – ma occorre sottolineare ancora una volta che sempre di voci si tratta – concordano nel sostenere che Silvia sarebbe stata portata nella foresta di Boni al confine tra Kenya e Somalia, una giungla impenetrabile frequentata da bande di criminali, bracconieri (tra l’altro Moses Lwali Chembe, uno dei tre sotto processo, ha precedenti proprio per bracconaggio), integralisti islamici kenioti e somali, fuorilegge in fuga, piccoli plotoni dell’esercito e guardie forestali asserragliate nei loro fortini. Non esistono villaggi civili. Lì, a cavallo tra i due Paesi, si può attraversare il confine quotidianamente.
Altre voci parlano di un suo trasferimento all’arcipelago delle isole Bajuni, di fronte al porto somalo di Chisimaio, dove però solo un paio di isole hanno pozzi d’acqua. Nel sud della Somalia il governo di Mogadiscio è totalmente assente. A Chisimaio si è insediato l’amministrazione del Jubaland che dovrebbe comandare su quella parte del territorio, fino a Ras Chiamboni e ai confini con il Kenya. Intavolare trattative è intricato e arduo.
Ma è complicato anche cercare il bandolo della matassa quando continuano a circolare false informazioni e depistaggi.
Non si riescono per esempio a giustificare le dichiarazioni delle nostre autorità secondo cui la collaborazione tra Kenya e Italia è fattiva ed efficiente. Ma allora come mai ai carabinieri italiani è stato concesso di andare a Chakama a visitare la misera stanza dove viveva Silvia soltanto il 23 d’agosto scorso? E perché solo in quei giorni sono stati consegnati agli italiani i tabulati dei numeri telefonici di Silvia? Forse occorrerebbe che qualcuno spiegasse tutti questi silenzi, queste omissioni, queste reticenze.
E’ bene poi qui ricordare il caso di Stefano Cucchi. Se la sorella Ilaria non avesse battuto i pugni sui tavoli sarebbe morto per un’overdose. Era questa la tesi ufficiale.
E intanto di lei, di Silvia, da quel 20 novembre di un anno fa, non si sa più niente. Bocche cucite dei carabinieri, i diplomatici italiani tacciono, e continuano i misteri che si moltiplicano, via via che passa il tempo.
Massimo A. Alberizzi
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