Le sirene di sabbia del deserto attraggono i migranti ma poi li abbandonano nel nulla

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Migranti nel deserto

Mauro Armanino
Niamey, ottobre 2019

L’ultimo migrante si chiama Raymond. La Sierra Leone, suo Paese d’origine, l’ha scacciato con l’interminabile guerra civile dei diamanti insanguinati. L’implicazione di Charles Taylor, attualmente in carcere per crimini contro l’umanità, non ha fatto che peggiorare le cose.

Un Paese allo sbando che ha costretto Raymond e migliaia come lui, ad abbandonarlo e cercare altrove la salvezza. Raymond ha 42 anni e da quando era quattordicenne non ha vissuto altro che la guerra, durata qualcosa come undici anni. Da rifugiato si è gradualmente trasformato in emigrante e infine in “irregolare”. Con la complicità dell’OIM, Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, da presunto “criminale” ha potuto accedere allo statuto di libero migrante rispedito in patria. Un’identità che si è costruita e disfatta col tempo, la sabbia, i documenti e le frontiere, labili, dell’umana avventura. Raymond era passato per salutare il giorno prima di tornare al suo Paese natale.

Migranti nel deserto

Era il mese di giugno di quest’anno e aveva giurato davanti al dio dei migranti, che poi è un dio a parte, che sarebbe rimasto nel Paese che era stato costretto a lasciare quasi trent’anni prima. Raymond non ha saputo resistere al canto delle sirene di sabbia che, dopo l’esperienza deludente di Ulisse, hanno fatto dei migranti il loro bersaglio favorito. Nessuno ha legato Raymond all’albero della nave e così, senza offrire resistenza, lui è ripartito.

Presenta con sapiente lentezza il passaporto che teneva in tasca assieme ad una moltitudine di fogli scritti a mano. Indirizzi, numeri telefonici, promesse di matrimonio e codici segreti per un conto in banca inesistente. Aveva appena attraversato la frontiera della Nigeria dopo aver passato quella del Benin, del Togo, del Ghana, della Costa d’Avorio e della Guinea. Il tutto per via delle sirene di sabbia che, evidentemente, avevano legami con quelle del mare e fianco con quelle della foresta. Una sorte di multinazionale delle sirene che, facilitate dalla globalizzazione, hanno la possibilità di comunicare in tempo reale gli spostamenti dei migranti e delocalizzare i loro canti. Raymond è rimasto giusto due mesi in Sierra Leone dove la pace non basta per mangiare la dignità e lamenta di non aver ricevuto il fondo previsto di rinserimento al Paese. Detto fondo è previsto dagli accordi informali tra gli Stati Finanziatori e l’OIM, che si occupa dei ‘liberi’ rimpatri dei migranti che le sirene hanno abbandonato al loro destino, usa i milioni che a questo titolo riceve, nella totale opacità di gestione. Raymond non sa resistere e abbandona di nuovo il suo Paese per cercare quanto non è sicuro di trovare nella sua terra d’origine, matrigna che ha da anni abbandonato i propri figli al miglior offerente delle transazioni umanitarie.

Appena prima di lui, che cerca casa senza trovarla, erano passate tre signore della Repubblica Centrafricana. Proprio mentre a Niamey si svolgeva un seminario sulla democrazia in Africa occidentale, arrivano senza nulla da promettere agli elettori. Dal loro Paese, in guerra dall’ultimo colpo di stato del 2013, hanno transitato il Camerun e poi la Nigeria per raggiungere il Niger. Le sirene le hanno accompagnate, per solidarietà di genere, sane e salve fino ad Agadez, nel nord del Niger, nuova frontiera dell’Europa. Non hanno però potuto fare nulla per impedire che, ad un giorno e mezzo di viaggio dalla città, fossero fatte prigioniere da banditi armati che parlavano, a loro dire, arabo. Le tre signore, i mariti e gli altri passeggeri del camion sono stati derubati di tutti i loro averi e le signore hanno patito quanto non si racconta mai in pubblico. Fatima, una delle tre, raccontava che anche sua figlia undicenne era passata per la stessa esperienza. La bimba vive con sua madre, per ora, in una delle numerose stazioni delle corriere della capitale, che fungono anche da alberghi dei poveri, con docce, bagni e materassini di gomma. Prima di partire ha confessato, sotto lo sguardo pùdico delle sirene di sabbia, che la figlia undicenne si chiama Maryam, Maria.

Mauro Armanino

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