AFRICA

Ilaria e Miran, il caso non è chiuso ma ora si indaghi sui veri motivi dell’omicidio

Speciale per Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
5 ottobre 2019

Siamo grati al giudice per le indagini preliminari di Roma che ha respinto la proposta di archiviare le indagini sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Una vicenda dove emergono misteri, depistaggi, errori giudiziari, amnesie, omissioni e pressapochismi che lasciano perplessi e sorpresi.

Finora le indagini sono state indirizzate a individuare un possibile complotto collegato a un traffico d’armi o di materiale tossico o nucleare, possibilmente con la partecipazione la Cooperazione Italiana. Nessuno però – per quanto ne so io – ha investigato sulle violenze commesse dai nostri militari sulla popolazione somala. Un’inchiesta venne aperta dalla procura militare dopo la pubblicazione da parte del settimanale Panorama (allora direttore era Giuliano Ferrara) di esaustive fotografie che documentavano giochi e violenze sessuali su donne somale. L’inchiesta è finita nel nulla, nessun processato, nessun condannato.

Ilaria Alpi e Massimo Alberizzi fotografati fuori dall’hotel Salafi nel 1993

Una vicenda che ha provocato sentimenti di ritorsione e una volontà di rappresaglia nei confronti degli italiani. Ilaria e Miran potrebbero essere stato uccisi semplicemente durante un tentativo di rapimento finito in tragedia. Un sequestro organizzato per vendetta, che prevedeva alla fine una richiesta di riscatto come una sorta di risarcimento.

L’auto su cui viaggiavano, che ho cercato e trovato nei meandri infiniti della città vecchia di Mogadiscio, era crivellata di proiettili e non presentava solo due buchi – presupposto per una esecuzione – come ha scritto qualcuno che non è andato a investigare seriamente di persona nella violenta e assai pericolosa capitale somala. Come mi aveva raccontato Ali (e non Abdi, come l’hanno chiamato tutti) il mio autista che avevo imprestato a Ilaria, a sparare per primo fu la guardia del corpo dei giornalisti, ma l’arma subito dopo si era inceppata. Da qui la risposta furibonda degli aggressori.

La popolazione dell’ex colonia italiana aveva anche altri motivi – a torto o a ragione – per nutrire sentimenti di rivalsa nei confronti delle nostre truppe. Il clima che si respirava negli ultimi mesi della missione Ibis era piuttosto pesante. Sovente gli italiani erano apostrofati dalla gente: “Italiani mafio”. Epiteto declinato con la “o” finale.

Per quel che ne so io, nessuno ha investigato in questa direzione.

Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno;

Questa sestina che ho preso dal Paradiso di Dante spiega bene l’atteggiamento tenuto in questi anni da quanti non hanno saputo o voluto cercare altrove. Ilaria e Miran dovevano essere stati uccisi perché avevano scoperto qualche malefatta della Cooperazione Italiana. Una tesi che deve aver soddisfatto quelle mele marce dell’esercito italiano che hanno commesso abusi e violenze gratuite sulla popolazione, ma anche gli altri gradi che hanno colpevolmente coperto tali colpevoli eccessi.

Tutti si sono adeguati all’ipotesi e al pensiero dominante: complotto.

Ali Abdi, l’autista che guidava l’auto su cui viaggiavano Ilaria e Miran al momento dell’agguato. Ali era l’autista che Massimo Alberizzi usava per spostarsi con la Panda del Corriere della Sera.

Ci sono altri “eccessi” che sono rimasti più o meno segreti, alcuni dei quali riportati dalla stampa. Come la storia del cosiddetto “tucul delle vedove”, organizzato da un tenente colonnello della brigata Folgore. Non era un tucul ma una casetta in cui l’ufficiale riceveva signore e signorine compiacenti che offrivano servizi particolari e a un prezzo, per essere in Somalia, tutto sommato accettabile. Tutti sapevano in città: anche i fratelli, i padri, i mariti delle “vedove” che incassavano i soldi, ma in cuor loro giuravano vendetta. Tutti sapevano nel contingente, nessuno l’aveva denunciato, ma qualcuno, capendo il pericolo che quell’uomo poteva rappresentare, era riuscito a rimandarlo in Italia. Solo per poco. Il colonnello riuscì a tornare a Mogadiscio e a dedicarsi al suo passatempo preferito.

Nell’estate del 1993, per protestare contro la politica del pugno di ferro messa in atto dagli americani in Somalia, il quartier generale dell’esercito italiano viene trasferito a Balad, a una trentina di chilometri dalla capitale. Soltanto un piccolo distaccamento resta basato a Mogadiscio nell’edificio della nostra ambasciata. A Balad la guerra è lontana e gli uomini del contingente pattugliano l’area semidesertica nei dintorni dell’accampamento. Organizzano anche battute di caccia al facocero una sorta di maiale selvatico dalle carni pregiate che i somali non possono mangiare per il divieto imposto dal Corano.

Miran Hrovatin e ilaria Alpi in Somalia

Durante un’escursione i nostri inseguono un animale, vogliono ucciderlo e arrostirlo allo spiedo come hanno già fatto altre volte. Il facocero in fuga cerca di dileguarsi. I militari sparano ma sbagliano mira: al posto dell’animale scoprono di aver ucciso un bambino.

Comincia la trattativa per risarcire la famiglia che chiede 10 mila dollari. Il comando italiano offre e ne paga solo 5 mila. Il padre del ragazzino ha continuato fino alla fine a chiedere il compenso che lui pensava fosse un giusto indennizzo.

Il ritiro da Jalalaxi degli italiani ha qualcosa di incredibile. Alcune testimonianze raccolte da Africa ExPress – e già in mano degli inquirenti – raccontano che i soldati prima di lasciare l’ospedale hanno accatastato nel cortile mobili, sedie, scanni, tutto materiale in legno e gli hanno dato fuoco. Giusto per non lasciarli in eredità ai somali. Ma non solo. Ricorda una giornalista: “Quando la colonna è partita verso Mogadiscio e i mezzi militari si allontanavano i soldati dai loro autoveicoli facevano vedere ai bambini affamati, che li salutavano e li rincorrevano, pacchetti di biscotti ma quando i piccoli allungavano le mani per afferrarli, loro li tiravano indietro”. Le autorità militari hanno smentito; eppure testimonianze indipendenti esistono, eccome.

Il 2 luglio 1993 all’alba i militari italiani bloccano 4 somali. Il loro arresto è ripreso dalle telecamere del TG1 il cui corrispondente segue i soldati durante il rastrellamento che precede la battaglia del pastificio. Subito dopo il combattimento che provoca 3 morti e 22 feriti tra gli italiani e oltre cento caduti tra civili e miliziani somali (qualcuno porta questo numero a 600) i 4 arrestati vengono massacrati di botte, seviziati e chiusi al caldo torrido in un container. Gli alti ufficiali dopo la battaglia hanno altro da fare e vengono avvisati solo due giorni dopo. Il 5 luglio il generale Bruno Loi, capo del contingente italiano, ordina il loro trasferimento all’ospedale da campo allestito dal contingente degli Emirati Arabi Uniti. Il giorno successivo una troupe della CNN in visita alla clinica, mi chiama perché ci sono i 4 somali lasciati lì dagli italiani. Un medico arabo mostra le cicatrici delle bruciature di sigarette e i segni dei calci inferti da scarponi militari. Il filmato girato dalla producer Ingrid Formanek della CNN è esaustivo. Ed è agli atti del procedimento giudiziario. Ma anche i familiari e i parenti di qual centinaio di morti in battaglia avevano qualcosa da rivendicare.

Di episodi simili che hanno reso assai difficili le relazioni tra i militari italiani e la popolazione di Mogadiscio, ce ne sono stati parecchi. Una parte dei somali, forse anche aizzata dai signori della guerra, era animata da sentimenti di rivincita e vendetta. Basta leggere le agenzie della settimana precedente a quel tragico 20 marzo 1994. In particolare il corrispondente della France Press-e, Ali Mussa, racconta come la base degli italiani nel villone che una volta era la sede della nostra ambasciata fosse circondata dai cecchini. Il portone era a un centinaio di metri dal luogo dove sono stati uccisi Ilaria e Miran. I tiratori si erano appostati sui palazzi circostanti e sparavano a qualunque veicolo uscisse dall’accampamento o tentasse di entrarci.

Nessuno ha mai voluto indagare in questa direzione. La tesi del complotto per coprire un traffico illecito scoperto dai due giornalisti e stata abbracciata acriticamente. Una tesi precostituita colpevole di aver portato all’arenamento delle indagini, indirizzate solo in quella direzione.

E così non solo non è mai stata fatta luce sull’omicidio, ma si sono anche depistate le indagini. E’ questa è sicuramente una grossa responsabilità. Soddisfatto l’apparato militare uscito indenne da questa storia. Ha vinto la Ragion di Stato, aiutata dal politically correct. Ha perso la Verità. Aver respinto la richiesta di archiviazione del caso offre ora la seria opportunità di cambiare obbiettivo.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

L’articolo publicato dal Corriere della Sera il 30 agosto 1993

 

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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