Con questo articolo sul bombardamento degli impianti petroliferi
in Arabia Saudita, comincia la collaborazione
di Monica Mistretta con Africa ExPress. Benvenuta
Monica Mistretta
18 settembre 2019
“Ma quali missili Cruise! Erano dieci droni armati, alcuni montavano motori jet. Era la prima volta che venivano usati. Per colpire il bersaglio hanno percorso più di 1.100 chilometri”. È Mohammed al Hindi a parlare da Sanaa, la capitale dello Yemen controllata dalle milizie Houthi. Lui è manager affari Esteri presso l’Ente di promozione del Turismo. Al telefono è gentile ma risponde quasi seccato, con battute ironiche, quando gli chiediamo chi abbia condotto l’attacco che sabato alle quattro del mattino ha fatto saltare gli impianti petroliferi sauditi a Abqaiq e Khurais, dai quali passa gran parte del flusso di petrolio destinato ai paesi occidentali. Al Hindi conferma senza esitazioni la versione che fino a oggi hanno dato le autorità Houthi: sono stati loro a lanciare 10 droni dal territorio dello Yemen.
Di parere opposto il governo degli Stati Uniti: l’attacco non è opera degli Houthi, ma è partito dall’Iran. Lo ha detto il segretario di Stato Mike Pompeo e lo ha ribadito lunedì a Vienna il segretario all’Energia, Rick Perry. Fonti del Pentagono sono state più specifiche, parlando di un raid molteplice condotto con missili Cruise e droni direttamente dal territorio dell’Iran. Ma le prove non sono ancora arrivate. Gli esperti statunitensi per ora si sono limitati a spiegare che i punti di attivazione delle difese aeree e i rumori dei motori indicano che l’attacco è venuto da nord. Quindi dall’Iran e non dallo Yemen.
Certo, guardando sulla mappa la posizione degli impianti a Abqaiq e Khurais sorge più di un dubbio: Abqaiq si trova a meno di 70 chilometri dal Golfo Persico, alle porte dell’Iran. Da lì lo Yemen e gli Houthi, le milizie sciite in guerra con l’Arabia Saudita, finanziate quasi interamente da Teheran, sono davvero lontane: 1.500 chilometri, forse troppo per un attacco con quei droni che fino a oggi hanno formato la batteria bellica a disposizione dei ribelli yemeniti.
Quanto ai droni con motori jet di cui parla Mohammed al Hindi, l’Iran ne ha presentato un modello alla fine di gennaio durante le celebrazioni per l’anniversario della Rivoluzione islamica. Un vecchio jet Lockheed T-33 della Guerra Fredda riadattato per essere trasformato in drone era apparso in pompa magna a Teheran tra le foto dei martiri e le interminabili parate militari.
Una cosa è certa: le avanzate difese missilistiche saudite, acquistate per milioni di dollari dagli Stati Uniti, non sono servite a difendere gli impianti petroliferi dal molteplice attacco. Pare che le decine di missili Hawk e Patriot non si siano nemmeno attivati. Uno smacco non solo per Riad, ma anche per l’industria bellica statunitense, da qualunque Paese sia partito l’attacco.
Donald Trump inizialmente aveva puntato il dito contro Teheran, dichiarando di essere pronto a un attacco. Poi lunedì ha minimizzato l’episodio spiegando che dopo tutto la perdita di milioni di barili di petrolio non è più un problema degli Stati Uniti, energeticamente autonomi. I prezzi del petrolio, però, lunedì volavano alle stelle alla borsa di New York.
L’Arabia Saudita da sabato tace o quasi. Si è limitata a chiedere la solidarietà internazionale nel condannare l’aggressione. Le risposte in Europa sono state tiepide. Un po’ meno in Siria: all’alba di martedì un attacco aereo ha distrutto tre postazioni delle milizie filoiraniane ad Al Bukamal, al confine con l’Iraq. La guerra fatta di raid notturni non rivendicati continua.
Monica Mistretta
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