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Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Malindi, 20 agosto 2019
Oggi sono esattamente 9 mesi dal giorno in cui Silvia Romanoè stata rapita in Kenya, a Chakama, un piccolo villaggio a un centinaio di chilometri da Malindi. Ieri è cominciato il processo contro, Ibrahim Adan Omar, e il 21 sarebbe dovuto riprendere quello a carico di altri due accusati, Abdulla Gababa Wario e Moses Luwali Chembe. Invece la giudice Julie Oseko ha deciso, su suggerimento della procuratrice Alice Mathangani, di accorpare i due processi, cosa che dovrebbe essere sancita all’udienza di domani. Il condizionale è d’obbligo giacché la signora Oseko ha chiarito che deve prima sentire il parere degli avvocati della difesa.
Ieri comunque, a differenza di quanto accaduto nelle sessioni di fine luglio, un gruppetto di italiani preoccupati della sorte della volontaria ventitreenne, alle 9 in punto si è presentata nell’aula del palazzo di giustizia per assistere al processo. Tra loro nessun diplomatico, e nessun inquirente. Gente comune che ha preso il posto lasciato vacante delle autorità italiane. Un segnale importante per fare capire che l’opinione pubblica chiede di essere rispettata e non si accontenta di credere senza senso critico a ciò che gli viene raccontato dai piani alti.
Avevano promesso la loro presenzaalcuni parlamentari che però sono stati richiamati a Roma dalla crisi di governo e dal dibattito in aula previsto per oggi.
A latere del processo i giudici hanno spiegato:“Qui abbiamo numerosi casi che riguardano cittadini stranieri: francesi, belgi, tedeschi, britannici, americani. C’è stata sempre la presenza di delegazioni della loro ambasciata. Per Silvia niente. Piuttosto strano”.
Durante i colloqui riservaticon gli inquirenti kenioti, sono emersi altri particolari interessanti che permettono di piazzare nuove tessere in un mosaico difficile da ricostruire. Oltre ai tre formalmente accusati e sotto processo, ci sono “parecchi” ricercati per questa vicenda, ma uno in particolare, cui i kenioti stanno dando la caccia senza quartiere, si chiama Said Ibrahim. Sarebbe l’uomo che ha organizzato il sequestro per conto dei veri interessati a rapire Silvia. E’ uccel di bosco: “Non sappiamo dove sia”, risponde un detective a domanda precisa ma conferma che lui è “solo”regista del complotto ma non è l’uomo che ha voluto il rapimento di Silvia: “Quello è ancora più su e deve godere di importanti protezioni”. Said Ibrahim, dunque sarebbe una figura intermedia tra chi ha partecipato materialmente al rapimento e chi l’ha ordinato.
Si suppone anche una complicitàad alti livelli in questa storia anche perché Ibrahim Adan Omar (attenzione da non confondere con Said Ibrahim) è un cittadino somalo che al momento dell’arresto è stato trovato non solo in possesso con un armi da fuoco, ma anche con un documento d’identità keniota ottenuto illegalmente senza la necessaria e obbligatoria procedura, che prevede il vaglio da parte di una commissione di 5 membri. Per lui la commissione non si è mai riunita, confermano alla polizia di Malindi, eppure ha ottenuto la nostra carta di identità.
Gli inquirenti sperano che qualcuno dei testimoniparli, ma prevale lo scetticismo. Da queste parti fare nomi è pericoloso, un po’ come nelle zone controllate dalla mafia: “Ma perché il vostro governo non garantisce la sicurezza dei testimoni in Italia? Una taglia e un permesso di soggiorno per chi fornisce informazioni sarebbero assai utili”, chiarisce un dirigente.
Spiegare che in Italia le fonti ufficialinon fanno trapelare alcuna informazione è complicato.
Il silenzio totale e misterioso ufficialmenteviene giustificato, per non danneggiare le indagini. Ma in questa vicenda ci sono troppe cose che non quadrano. L’inchiesta puntigliosa di Africa ExPress, che stiamo realizzando grazie al determinate aiuto finanziario dei nostri lettori e al sostegno editoriale degli amici del Fatto Quotidiano, sta dando alcuni risultati. La polizia keniota ha inviato ai loro colleghi che controllano il valico di frontiera all’aeroporto di Mombasa i dati dei due volontari che assieme a Silvia avevano sporto denuncia contro il pastore anglicano sospettato di pedofilia. L’obbiettivo è quello di cercare di capire se anche i file che li riguardano – e che dovrebbero essere conservati a oltranza – sono spariti, come quelli della volontaria rapita.
Basta poi leggere con attenzione i rapportidella polizia per accorgersi che il cognome di Elisabeth, la donna che abitava con Moses Luwali Chembe, arrestata subito dopo il rapimento parchè da suo telefono erano partite chiamate verso i presunti sequestratori ma subito rilasciata, è cambiato durante le indagini. Nei primi rapporti veniva indicata come Kasena dopo il suo cognome è diventato Karissa. Errore, sbadataggine, disattenzione o inganno e malafede? Fa capolino il sospetto che la difesa stia cercando di “girare le carte in tavola”.
Sempre grazie all’inchiesta di Africa ExPresse agli articoli tradotti in inglese che hanno goduto di una certa diffusione a Malindi, finalmente la polizia ha chiesto (o meglio è prudentemente scrivere: si è impegnata a chiedere) alle due compagnie telefoniche utilizzate da Silvia i tabulati delle telefonate, effettuate e ricevute, e dei messaggi della ragazza. Ma se risputasse che queste indagini sono state già fatte qualcuno dovrebbe spiegare perché non sono state inserite nel faldone delle indagini.
E allor viene in mente un’osservazionefatta ad Africa ExPress da uno capo della polizia a Nairobi che, all’inizio della nostra inchiesta, ha criticato il comportamento dell’esercito: “Ha chiuso le frontiere con la Somalia, ma non è stato assolutamente cooperativo con le indagini. Certo, non è il suo compito, ma i soldati sono arrivati anche in villaggi remoti, dove per noi è difficile arrivare.”
Massimo A. Alberizzi
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