Costantino Muscau
Milano, 15 agosto 2019
Si cerca il pelo in piscina. Si spacca il capello in quattro per giustificare, o tentare di spiegare, un fenomeno acquatico che sfiora il razzismo. “Perché i neri non sanno nuotare?” “Come mai non ci sono campioni di nuoto neri?”
L’interrogativo torna così frequentemente da diventare una diceria e una leggenda (e una fandonia) simili a quella “Perché i cinesi che abitano in Italia non muoiono mai?” “Perché il basket americano degli anni ’30 era praticato dagli ebrei?”
Lasciamo da parte i funerali cinesi made o non made in Italy. Qui limitiamoci al primo quesito: perché raramente si vedono nel nuoto atleti “di colore” competere in finale o in semifinale delle più importanti competizioni mondiali?
Pochi giorni fa l’argomento è stato rilanciato dalla BBC. L’emittente britannica ha preso lo spunto da un fatto che potrebbe apparire ridicolo.
Ha intervistato Alice Dearing, 22 anni, (di origine del Ghana), studentessa britannica all’Università londinese di Loughborough.
Alice è una delle più forti nuotatrice britanniche in acque libere. Attualmente è l’unica nera del Team GB di nuoto e soltanto la seconda nera a essere convocata nella storia del prestigioso gruppo col quale ha preso parte, fra l’altro, a due campionati del mondo, compreso quello recentissimo svoltosi in Corea del Sud.
Alice ha dichiarato alla Bbc : “Ricordo come fosse oggi quando, anni fa , una mia compagna di allenamenti mi disse che la ragione per cui le ragazze di colore non praticano il nuoto è legata alla loro chioma. Avevo 12-13 anni e mai avrei pensato di smettere di nuotare a causa della mia capigliatura. Ora che sono più grande capisco perché tante mie compagne si tagliavano i capelli, o avevano paura di guastarsi l’acconciatura: a causa del cloro che rovina i capelli ma anche la fiducia in se stesse. I danni sono maggiori per chi ha i capelli spessi e folti come la maggior parte delle giovani di origine afro”.
Un tricologo, Shirley McDonald, dell’Institute of Trichologists di Londra, sentito dalla BBC, ha spiegato: ”Le chiome delle ragazze nere sono più secche del normale e l’ipoclorito di sodio (applicato nelle piscine per disinfettare e ossidare l’acqua, ndr) le danneggia più profondamente, in quanto – se non vengono subito e sempre sottoposte a un adeguato lavaggio e trattamento – provoca un eccesso di secchezza “.
Una conferma in tal senso – sempre secondo la BBC – arriva dall’altra parte dell’oceano, da Howard University di Washington, l’unico ateneo “storicamente nero” che accoglie e alleva nuotatori e nuotatrici .
Sostiene Chandler Carter, esponente del team femminile universitario: “Conosco tantissime ragazze che smettono di nuotare proprio a causa dei capelli. Non è facile accettare di nascondere o tagliare le treccine a differenza e di tante loro coetanee che non praticano questo sport”.
Ma è veramente per questo che, secondo i dati forniti dal Swim England ( l’organismo nazionale del nuoto) su 73 mila persone che frequentano le piscine a livello agonistico solo 668 sono nere o comunque non bianche? È per questo che Alice Dearing ha confessato di essersi sentita, per anni, fuori posto in piscina? Tutto per il “fattore tricologico”?
C’è anche chi si è avventurato nel rintracciare una questione genetica e fisiologica. Gli atleti neri sarebbero svantaggiati per via della più elevata densità ossea e della minor percentuale di tessuto grasso, che li porterebbero ad avere maggiori difficoltà nel galleggiamento. I neri sarebbero poi dotati di più fibre muscolari “bianche”, le cosiddette fibre veloci, utili in caso di azioni brevi ed esplosive come nei 100 metri piani in atletica. Teorie che hanno portato qualcuno a sostenere, 3 anni fa, che ci sarebbe stata una “certa moria in laghi e mare tra gli immigrati africani in Italia!”
Le differenze genetiche esistono – come scrisse parecchi anni fa il ricercatore americano Jon Eltine nel suo discusso libro “Taboo – Why black athletes domiante sports and why We’re afraid to tlk about it” – sulla diversità etnica nello sport – ma nulla hanno a che vedere con la genetica dell’intelligenza.
Esistono fattori ambientali (educazione, famiglia…), sociali e politici : in Africa e nei ghetti neri di molte città americane le piscine sono scarse e, soprattutto, costose . Per questo negli States e in Sud Africa il nuoto storicamente è stato appannaggio dei bianchi e segno di discriminazione e segregazione razziale. Nel Continente Nero, poi, l’Oceano , i laghi i fiumi sono sempre stati mezzi di sostentamento non di attività ludiche…
Comunque, infilarsi in questo mare si rischia di andare a fondo: non solo perché il concetto di razza è scientificamente inconsistente, ma anche perché rimarcare le differenze sul piano fisico tra bianchi, neri, orientali può portare a discriminazioni e categorizzazioni pericolose, oltre che ridicole e smentite dalla storia (del nuoto).
Nessuno ricorda, ad esempio, come i giapponesi abbiano dominato in piscina dagli anni ’30 per un ventennio. E che dire dei cinesi? Le ondine targate Pechino fino ai primi anni ’90 erano dei pesci fuor d’acqua. Poi da Barcellona (1992) hanno dominato fino ai campionati mondiali di Roma (1994) punto di arrivo del loro strapotere (12 medaglie d’oro su 16); quindi sono andate a fondo, sommerse e dannate dall’ondata di doping. I loro colleghi maschile, a loro volta, sono emersi nei primi anni 2000 e ancor oggi sono sulla cresta dell’onda, pur con qualche riserva su certe performance.
E come la mettiamo con l’americana Simone Manuel che alle Olimpiadi di Rio, nel 2016, ha conquistato ori e argento nel nuoto nel 2017 ai mondiali di Budapest si è confermata la più veloce nei 100 metri stile libero?
E con Maritza Correia McLendon? Nel 2002 Maritza fu la prima afro-americana a battere un record americano nel nuoto e nel 2004 a conquistare un posto nel U.S. Olympic Swim Team con il quale vinse la medaglia d’argento nella 4×100 stile libero.
Come erano le loro fibre? Bianche, rosse, nere?
In realtà Maritza e Simone hanno semplicemente confermato che l’acqua può essere l’elemento ideale anche per gli atleti di colore. I loro successi hanno gettato, si spera per sempre, nella spazzatura le teorie assai bislacche sul fisico black poco adatto al galleggiamento!
E qui torniamo ai capelli. Come li mettiamo con il nuoto? Intendiamoci: “Non esiste la storia afro-americana senza la storia dei loro capelli”, scrisse anni fa Gabriella Grasso sul sito “Corriere delle Migrazioni”. Non è un caso che anni fa Ayana Bird e Lori Tharps abbiano dato alle stampe un libro fondamentale dal titolo Hair story, Untangling the Roots of Black Hair in America. Il volume parte dal profondo significato sociale che l’acconciatura aveva tra le popolazioni dall’Africa Occidentale nel 1400 e spiega come la denigrazione di quella che gli schiavisti chiamavano “lana in testa” abbia portato a un senso di inferiorità. Secoli dopo, però, i capelli afro, esibiti nel loro look naturale, si trasformarono in uno strumento dell’identità black.
Ma sembra che si siano trasformati anche in un blocco per l’attività sportiva in vasca o in acque libere.
La Howard University ha preparato qualche anno fa un ironico documentario dal titolo Black Girls Don’t Swim in cui non si sottovaluta il ruolo pilifero nella rinuncia all’attività agonistica da parte di tante giovani afro-americane: “La capigliatura per loro è estremamente importante”.
Ebony Rosemond, fondatrice dei Black Kids Swim, un’organizzazione non-profit americana che offre guida e informazioni ai nuotatori neri e alle loro famiglie e mira a combattere lo stereotipo del “nero che non sa nuotare” , sostiene che “oltre al timore di vedersi rovinata la zazzera, c’è anche una paura ancestrale dell’acqua ad aver impedito la nascita di una tradizione nera in piscina”.
La sua organizzazione però è stata molto critica verso quel documentario: “Ci rifiutiamo di diffonderlo – ha scritto nel sito – esso parla della storica esclusione dei Neri dalle piscine pubbliche e del fattore capelli che allontana tante ragazzine e donne dall’attività sportiva. Sfortunatamente si concentra sul fatto che la gente Nera non nuota, non può nuotare e ha paura di nuotare. I fatti sono fatti: il 70 per cento degli Afro americani non sa nuotare. Tuttavia, siccome non nuotano non vuol dire che non possono nuotare. Significa che non hanno imparato. E noi dobbiamo batterci per questo. Un video umoristico non è la soluzione”.
Un altro sito (mamaknowsitall.com) l’ha buttata proprio sullo humor. In un post firmato, guarda caso da Bianca White, atleta di Ironman Triathlon, ha condannato ugualmente il luogo comune su neri che non amano galleggiare e ha aggiunto: “Non posso parlare delle ragazze nere senza toccare il tasto dei capelli. Ragazze se annegate, nessuno andrà a vedere come fosse la vostra criniera. Sciacquatela, lavatela, usate il balsamo, umidificatela e via in vasca!”
Come dire: ne abbiamo fin sopra i capelli della stupidità umana che continua a tirare per i capelli un argomento senza fondamento.
Costantino Muscau
muskost@gmail.cpm
P.S.
“Quando sento dire: ”Il popolo non è pronto, mi sembra come se si dicesse a uno che cerca di nuotare: non buttarti in quell’acqua finchè non avrai imparato a nuotare”. Mentre, in realtà, non si impara mai a nuotare finchè non ci si butta in acqua”.
Martin Luther King
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Le differenze fisiche tra popoli, etnie, razze, o come le si voglia chiamare ci sono eccome. Anche all’interno dell’Africa ci sono differenze morfologiche enormi. Pigmei, Tutzi e Utu, ad esempio, sono diversissimi fisicamente. Il fatto di negarlo, quello sì che è una forma di razzismo larvato; come se le differenze fossero qualcosa di cui vergognarsi.
Veramente tra tutsi e Hutu non ci sono assolutamente differenze. Ho girato il Ruanda in lungo e in largo è difficile riconoscer un tutsi da un Hutu. Sono mescolati da secoli e non c'è una differenza morfologica.
Certo, i pigmei sono diversi da i non pigmei ma non è un buon motivo per considerarli meno intelligenti.
Il razzismo invece è proprio una brutta malattia