Franco Nofori
12 agosto 2019
Sono stimati in diversi milioni di tonnellate i rifiuti tossici europei che ogni anno sbarcano al porto di Tema, in Ghana. Si tratta di materiale contenuto in varie apparecchiature elettroniche non più funzionati: telefoni cellulari, frigoriferi, televisori, computer e altri elettrodomestici in genere. I Paesi di provenienza sono: Germania, Gran Bretagna, Spagna, Italia, Irlanda e Danimarca. Tutte Nazioni che hanno aderito alle severe regole della Convenzione di Basilea che proibiscono l’esportazione di rottami provenienti da materiale elettronico. Com’è allora possibile che tali rottami raggiungano, in così ingente quantità, le coste atlantiche del Ghana? Chi gestisce questo traffico illecito?
Questa volta non si tratta delle purtroppo frequenti strategie che i grossi complessi industriali europei escogitano per liberarsi dei rifiuti tossici, derivanti dalle proprie lavorazioni. Questa volta, a gestire il business, sono gli stessi ghanesi che, legalmente o illegalmente, sono espatriati in Europa. Sono loro a raccogliere questi rottami, un po’ presso le discariche ufficiali, prima che avvenga il previsto smaltimento, ma soprattutto, attraverso una capillare ricerca, strada per strada; nei bidoni della spazzatura; presso i vari venditori di rottami e con appelli via internet. Poi, grazie ai contatti mantenuti attivi, nel proprio Paese d’origine, organizzano la spedizione di questo materiale, nascondendolo all’interno di autoveicoli usati, regolarmente esportati in Ghana per il mercato del “seconda mano”.
Questo materiale approda quindi alla cittadina di Agbogbloshie, nell’hinterland dalla capitale Accra, dove migliaia di addetti danno fuoco ai rottami elettronici, in modo da ricavarne ferro, rame, ottone e altri metalli di valore. Questa attività, che sembra sorprendentemente sfuggita all’attenzione delle autorità ghanesi, ha reso l’agglomerato di Agbogbloshie, uno dei luoghi più inquinati del modo, poiché è stato accertato che la continua combustione di materia plastica, usata nella maggior parte dei componenti dei residui elettronici, è altamente dannosa per la salute di chi spende la maggior parte del tempo a respirarne l’aria ammorbata, con il rischio di gravi patologie, quali: disfunzioni circolatorie, cancri polmonari, infezioni all’apparato respiratorio e infarti.
Gli addetti all’opera di estrazione, guadagnano dai due ai tre dollari per una giornata di lavoro che dura non meno di dieci ore. Un compenso troppo esiguo per barattarlo con la propria vita. Stupisce, inoltre, che questo odioso sfruttamento venga attuato in un Paese, il Ghana, che ha un PIL in costante crescita e il cui governo ha più volte ottenuto riconoscimenti internazionali per essere riuscito a creare un promettente sistema sociale e democratico. Eppure, non tutto sembra funzionare a dovere se, come ha dichiarato Jim Puckett, della BNN (Basel National Network), “l’80 per cento delle merci esportate dall’Europa all’Africa, è di natura illegale”.
Del resto, lo stesso governo ghanese, ha ammesso che il 75 per cento delle merci che il Ghana importa, sono costituite da prodotti usati. “I controlli nei porti di uscita, come in quelli di entrata – dice ancora Puckett – sono effettuati tramite lo screening dei container. Operazione che rende quasi impossibile (soprattutto quando si tratta di autoveicoli) distinguere le componenti metalliche e plastiche legittime da quelle proibite. Occorrerebbe un’ispezione fisica sull’intero contenuto del container, ma questo comporterebbe enormi perdite di tempo che comprometterebbero l’efficienza dell’attività portuale. Rischio che nessun Paese è disposto a correre”.
Così, per non correre questo rischio, la gente in Ghana, continua a morire. Muoiono soprattutto gli appartenenti alle nuove generazioni che, per quattro soldi, lavorano nell’inferno di Agbogbloshie, ma insieme a loro soffrono e muoiono anche gli abitanti dei quartieri limitrofi, tra cui quelli più fragili: i bambini. Nelle loro urine vengono sempre più frequentemente rilevate alte tracce di residui plastici. Ma la diffusione tossica, contagia anche gli animali e gli alimenti, allargando così la nefasta opera infettiva, come sta già avvenendo per uno dei più comuni cibi africani: le uova, in cui sono state frequentemente trovate elevate tracce di diossina.
Franco Nofori
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@FrancoKronos1
Fonte: euronews.com
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"Rispediamoceli a casa nostra" o "Prima i rifiuti italiani" verrebbe da dire. Ma il problema è che in Italia siamo riusciti ad imporre la tracciabilità anche a una singola fettina di carne, ma volutamente non ci preoccupiamo di farlo con quegli elementi destinati ben presto a diventare ingombranti rifiuti, semplicemente perché onerosi da riciclare. Se ci fosse un cip, sarebbe facile per le autorità portuali scovarli.