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Massimo Alberizzi
Malindi, 5 agosto 2019
Il documento della polizia di Malindi è chiarissimo: gli imputati, Abdulla Gabara Wario e Moses Luwali Chembe, hanno rapito Silvia Romano per provocare gravi danni, ridurla in schiavitù e per costringere l’ambasciata italiana a pagare un riscatto come condizione per il suo rilascio. Accuse gravissime che prevedono come pena massima anche l’ergastolo. Secondo gli inquirenti le autorità italiane non sono a conoscenza di questo capo di imputazione: “Qui nessuno si è fatto vivo. Né diplomatici, né i carabinieri (del ROS, incaricati delle idagini, che si sono fermati a Nairobi, ndr) né tanto meno le antenne dei servizi di intelligence – spiega un ispettore della polizia -. Qualcuno è arrivato subito dopo il rapimento di Silvia avvenuto il 20 novembre. Poi più niente”.
Alla cancelleria del tribunale rincarano la dose: “Visto che il processo è cominciato, i documenti sono pubblici, ma finora nessuno è venuto a prenderne visione”. Dichiarazioni che lasciano sconcertati, come quelle rilasciate a Roma, secondo cui non è mai stato chiesto un riscatto. Se i rapitori non si sono fatti mai vivi con gli italiani perché vengono processati – secondo le accuse – per aver chiesto un riscatto all’Italia?
Un altro mistero da aggiungere al castello degli allarmanti interrogativi che avviluppano la drammatica vicenda di Silvia Romano. Il silenzio stampa chiesto dalle autorità italiane (e rispettato da gran parte dei giornaloni) inquieta perché potrebbe nascondere altri obbiettivi e non quello dichiarato secondo cui parlare della vicenda farebbe deragliare le indagini. Indagini che non vengono svolte – è lapalissiano – non possono deragliare.
Un mistero invece è stato svelato: secondo le ricostruzioni di qualche giorno fa Silvia aveva sporto una denuncia verso un pastore anglicano accusandolo di molestie verso alcune bambine. In un messaggio vocale a una sua amica, la ventitreenne volontaria milanese aveva spiegato di essere andata dalla polizia e di aver raccontato a un’agente che si occupa della difesa dei minori la vicenda. Aveva poi ricevuto assicurazioni che il pastore sarebbe stato arrestato il giorno successivo.
Ma negli archivi della polizia di Malindi di quella denuncia non è stata trovata traccia. Ieri Mariam, l’investigatrice che si era occupata della vicenda, ha confermato il colloquio con Silvia ma ha spiegato di aver raccolto la sua denuncia sul suo bloc notes personale e non averla poi trasferita sul faldone ufficiale: “Silvia non ha potuto fare i nomi delle bambine e neppure quello del sacerdote, individuato solo più tardi. La sua storia non aveva i dettagli necessari per poterla indagare. Quindi non l’abbiamo riportata”. Una spiegazione convincente?
Una soffiata in tribunale spiega che il procedimento del 19 agosto, che coinvolge Ibrahim Adan Omar, è assai importate perché investe un altro aspetto del sequestro, con risvolti anche in questo caso inquietanti. Ibrahim è sospettato di aver ideato e pianificato il rapimento: è stato per ben tre volte a Chakama e ha dormito nella guest house Togo, di fronte alla casa dove abitava Silvia. Testimoni interrogati dalla polizia keniota ci hanno raccontato che non aveva grandi impegni. Siamo convinti che fosse andato lì per controllare la situazione”. Ibrahim Adan Omar è un cittadino somalo che era in possesso di una carta di identità keniota autentica. “La nostra cittadinanza si può ottenere solo dopo il parere positivo di una commissione di 5 membri. Lui l’ha ottenuta con il parere positivo di un solo membro e la commissione non si è mai riunita. Si vede che possiede protezioni potenti. E’ stato arrestato vicino Garissa (città dove gli shebab terroristi somali nel 2015 hanno massacrato 147 studenti, ndr) ed era in possesso di armi da fuoco”.
Massimo A. Alberizzi
Twitter: @malberizzi
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Fatto dopo la tua segnaazione. Scusa chiediamo venia