A casa di Silvia: l’indiziato numero 1 (fuori su cauzione) sa troppo e rischia di essere ucciso

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Dall’Inviato Speciale di Africa ExPress e del Fatto Quotidiano
Massimo A. Alberizzi
Malindi, 2 agosto 2019

“Che i rapitori cercassero Silvia e solo lei non c’è dubbio. Quando si sono avvicinati all’edificio dove c’è la sua stanza mi hanno chiesto se c’era Silvia e dov’era. Gli ho indicato la porta numero 7. Quindi cercavano proprio la mia amica”. Chi parla è Ronald un ragazzo che conosceva bene la giovane milanese. Il suo racconto è avvalorato dal capovillaggio, Mac Donald Ngowa Mwaringa, che conferma e aggiunge: ”Qualcuno deve aver chiesto agli uomini del commando di portare via Silvia. Questo qualcuno deve aver fornito anche il denaro per organizzare l’operazione”.

La misera stanzetta dove abita la giovane milanese è una celletta di tre metri di larghezza per quattro di lunghezza: due letti a castello, con i materassi piuttosto malconci, e senza corrente elettrica, solo una lampadina con luce fioca grazie all’energia solare. Dovrebbero venire a vivere qua dentro un mese, come ha fatto Silvia, quei soloni che stravaccati sulle loro poltrone pontificano sparando giudizi critici su chi ha scelto di aiutare gli altri in questo inferno. La descrizione della toilette la lascio all’immaginazione dei lettori.

A Chakama sono in pochi a conoscere i tre indiziati, Moses Luari Chende, Abdulla Gababa Wari (le udienze che li riguardano sono state celebrate il 29 e 30 luglio e la prossima è prevista il 21 agosto) e Ibrahim Adan Omar (che sarà processato il 19 agosto). Solo il primo è un po’ più noto perché viveva con una ragazza del villaggio, Elisabeth Kasena, e poi il 17 e il 18 novembre, due giorni prima del rapimento, aveva dormito in una guest house di fronte alla casa di Silvia. Moses è a piede libero perché ha pagato una cauzione di 25 mila euro, una cifra enorme da queste parti. Secondo il capo villaggio “ora rischia di essere ucciso da chi ha ordinato il sequestro. Lui sa troppe cose e conosce i mandanti. Se lo ammazzano si porterà il suo segreto nella tomba. Come avrà fatto a pagare la cauzione?”, si domanda poi Mac Donald.

Una visita al tribunale di Malindi permette di scoprie come ha fatto a pagare. Due persone che sostengono di essere lo zio e il nonno di Moses hanno dato in pegno altrettanti terreni.

Il primo si chiama Charles Kazungu Ngala e dichiara di guadagnare 60 mila scellini (520 euro) all’anno, il secondo George Karisa Kitsao, sempre secondo i documenti che riusciamo a visionare, 1.048 euro all’anno. Ciascuno dei due si impegna ad andare in prigione se il loro protetto non si presenterà in tribunale per il giudizio e ciascuno dei due risponde per 25 mila dollari. Inoltre George Kitsao è di Marafa, lo stesso villaggio di Francis Kalama, il pastore anglicano che Silvia aveva denunciato alla polizia per pedofilia. Semplice coincidenza?

“Siamo scioccati – spiegano due amici che conoscono bene Moses –. I suoi genitori sono poverissimi, ai limiti della sopravvivenza”. Secondo quanto emerso durante le due udienze del processo gli accusati, tramite loro complici, per arrivare a Chakama avrebbero acquistato due motociclette per 40 mila e 35 mila scellini, rispettivamente 350 e 300 euro.

Durante il sopralluogo alla centrale di polizia di Malindi salta fuori un particolare sconcertante. Il 21 novembre, cioè il giorno dopo il rapimento di Silvia, i ranger del KWS (Kenya Wildlife Service, una sorta di guardie forestali) avevano individuato il luogo dove la ventitreenne milanese era tenuta prigioniera. Ma per paura che con le poche armi in dotazione non sarebbero stati in grado di contrastare i banditi, gli è stato impartito l’ordine di fermarsi in attesa della polizia. Nel frattempo gang e ostaggio si sono allontanati facendo perdere le tracce.

Il faldone con i documenti del caso Silvia Romano

Dall’incartamento processuale emergono almeno altri due fatti inquietanti. Il rapporto della polizia mette in guardia dalle conseguenze provocate dal rilascio su cauzione dei due indiziati che potrebbero sottrarsi alla giustizia. E poi, tra i capi d’accusa, l’organizzazione del rapimento per costringere l’ambasciata italiana a pagare un riscatto “come esplicita condizione per il rilascio della ragazza”. Particolare finora inedito. Mai si è saputo di una richiesta di riscatto.

Infine risulta frutto della fantasia di chi l’ha messa in circolazione la notizia secondo cui gli indiziati hanno confessato e collaborato con la giustizia. Al tribunale sono stati categorici: “Si sono dichiarati innocenti e all’oscuro di tutto”.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

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