Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 4 agosto 2019
Ad un anno dalla comparsa della decima epidemia di ebola nella Repubblica Democratica del Congo le autorità di Kinshasa temono che possa durare altri due, se non tre anni. Si tratta della peggiore propagazione della malattia in termini di morti e durata della stessa nella ex colonia belga e a livello mondiale si posiziona al secondo posto, dopo la pandemia della febbre emorragica del 2014 -2016 che aveva colpito l’Africa occidentale, uccidendo oltre 11.000 persone.
In Congo-K ci sono state dieci epidemie da quando è scoppiata la prima nel 1976. Durante quella del 1995 morirono alcune suore italiane a Kikwit. Gli ammalati che furono contagiati dal virus nel 2000 a Gulu, in Uganda, furono curati nell’ospedale italiano Lachor, un efficiente complesso diretto dal compianto dottor Piero Corti, che l’aveva fondato pochi anni prima assieme alla moglie Lucille, medico anche lei.
Secondo il bollettino epidemiologico nazionale di ieri, finora 1838 persone sono decedute a causa del letale virus, mentre 2741 hanno contratto la malattia e solamente 789 sono guarite. E proprio per il propagarsi della patologia, il 17 luglio scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato l’attuale epidemia come “Emergenza di salute pubblica di interesse internazionale” (PHEIC, Public Health Emergency of International Concern). E’ la quinta volta che l’OMS emette un’emergenza di tale gravità. Le precedenti quattro PHEIC erano realitive all’influenza suina del 2009, alla polio nel 2014, all’epidemia di ebola in Africa occidentale nel 2014 e a quella da Zika virus nel 2016.
Nel Nord-Kivu e Ituri, le due province colpite dalla patologia, la situazione geopolitica è assai complessa e ciò rende particolarmente difficile il lavoro degli operatori sanitari per contrastare la diffusione del virus. Gli attacchi continui di gruppi armati e il difficile accesso ad alcune aree impediscono l’organizzazione di un cordone sanitario.
Alle violenze si aggiunge l’ostruzionismo e la diffidenza di una parte della popolazione che rifiuta di sottoporsi ai controlli medici, ai vaccini, a far ricoverare i congiunti e si oppone ai funerali sicuri.
Proprio ieri sono state attaccate due vetture con a bordo tre medici del ministero della Sanità e un quarto dell’OMS, a Palatalisa, poco distante da Butembo, nel Nord-Kivu. Secondo quanto ha riferito una fonte dell’OMS, uomini armati avrebbero sparato contro le auto, per fortuna senza conseguenze per gli occupanti. I quattro medici lavorano nel centro per il trattamento di ebola di Butembo e sono tutti di nazionalità congolese.
La febbre emorragica ha raggiunto anche Goma, capoluogo del Nord-Kivu. La città è situata nella parte orientale del Congo-K, sulla riva settentrionale del Lago Kivu a poca distanza dalla città ruandese di Gisenyi. Già a metà luglio sono stati registrati casi nel capoluogo, ma dopo la morte di un’altra persona, un cercatore d’oro, il governo di Kigali aveva chiuso le frontiere con il Congo-K giovedì scorso Poche ore dopo il valico è stato riaperto, ma i controlli sanitari sono stati intensificati.
Le autorità congolesi stanno monitorando chi è entrato in contatto con il minatore, che proveniva da Ituri e aveva raggiunto Goma per far visita alla famiglia. Finora solamente la vedova e la figlia di dodici mesi hanno riscontrato il virus mentre gli altri familiari sono stati vaccinati e sono sotto controllo in un appartamento a Goma.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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