Speciale per Africa ExPress e per il Fatto Quotidiano
Massimo A. Alberizzi
11 luglio 2019
Nonostante l’accordo raggiunto tra i dimostranti della società civile, che da dicembre protestano per le strade, e i generali dell’esercito – residui dei militari golpisti (che avevano preso il potere il 30 giugno 1989) e da allora non l’hanno più mollato – per un governo di transizione che organizzi elezioni generali tra tre anni e tre mesi, il Sudan è ancora nel caos.
Il cambio di alleanze internazionali sta giocando un ruolo piuttosto perverso. Mentre gli Stati Uniti hanno sempre mostrato la loro ostilità verso la dittatura sudanese del generale Omar Al Bashir, la Russia che all’inizio delle manifestazioni aveva cautamente simpatizzato con i dimostranti, ora ha cambiato campo e si è schierata apertamente dietro ai generali. Mosca teme che un cambio di regime possa farle perdere quella posizione di favore che le consente di avere voce in capitolo nello sfruttamento delle risorse minerarie del Paese, prima di tutto il petrolio.
Non è un mistero che le navi militari russe godano inoltre di un attracco privilegiato a Port Sudan, lo scalo situato in una posizione strategica a metà del Mar Rosso. La partita che si sta giocando a Khartoum non è più quindi solo una questione interna dell’ex protettorato anglo-egiziano, ma si è spostata nel più ampio scacchiere dell’antagonismo tra Washington e Mosca nell’area mediorientale.
I documenti pubblicati dal Guardian e dal sito di notizie in lingua russa, MHK Media, elaborati da “Dossier Centre”, un gruppo investigativo finanziato dall’imprenditore russo in esilio, Mikhail Khodorkovsky, sono piuttosto inquietanti e hanno rivelato il ruolo svolto finora dalla Russia in Sudan.
I documenti – che sembrano all’apparenza del tutto veri – mostrano come Mosca abbia messo a punto piani per rafforzare la posizione della Russia in tutta l’Africa, costruendo relazioni con i governi, stringendo accordi militari con diversi Paesi, sostenendo una nuova generazione di leader e infiltrando una rete di agenti sotto copertura. Il dossier riporta anche i dettagli di una campagna russa per diffamare i manifestanti anti-governativi in Sudan.
Il piano contiene anche rielaborazioni della campagna del governo moscovita per combattere l’opposizione al presidente Vladimir Putin, addirittura in un documento con riferimenti alla Russia erroneamente non sostituiti con il Sudan.
Così si apprende che la Russia per screditare i manifestanti ha consigliato alle forze armate sudanesi di usare notizie e video falsi per dipingerli come anti-islamici, pro-israeliani e pro-LGBT. Il piano suggerisce inoltre di aumentare il prezzo della carta da giornale per rendere più difficile la stampa e la diffusione delle notizie sulle dimostrazioni. Di infiltrare poi nelle manifestazioni individui europei e mostrare le loro foto per denunciare “gli stranieri” ai raduni anti-governativi.
Tra i documenti del “Dossier Centre” c’è anche una lettera di Yevgeny Prigozhin, un uomo d’affari di San Pietroburgo stretto collaboratore di Putin, che si lamenta con il dittatore sudanese Omar Al Bashir, prima che fosse rovesciato l’11 aprile scorso, perché non segue i suoi consigli, di non essere abbastanza attivo e di adottare una “posizione estremamente cauta”.
Prigozhin, incriminato a suo tempo dal consigliere speciale statunitense Robert Mueller per aver gestito sui social media la diffusione di fake news per favorire la campagna presidenziale di Donald Trump nel 2016, è stato, secondo i documenti, un attore chiave negli sforzi per rafforzare l’influenza russa in Africa.
Effettivamente sembra ora che i suggerimenti russi siano stati accolti. La scorsa settimana i militari hanno invitato in Sudan un gruppo di giornalisti stranieri perché si rendessero conto della situazione. Per prima cosa sono stati accompagnati in alcuni ospedali saccheggiati, secondo le guide, dai manifestanti e come stessero tornando alla normalità. In realtà quelle strutture erano state attaccate dai famigerati paramilitari del Rapid Support Forces (gli ex janjaweed).
“Portarci lì deve essere sembrata a qualcuno una buona idea, anche se non riesco a immaginare perché – ha commentato il giornalista della BBC Fergal Keane – . Il piano era di mostrarci quanto i manifestanti si fossero comportati in modo terribile. Se il mondo potesse vedere come sono andate realmente le cose, capirebbe che il regime non ha avuto altra scelta che mandare la milizia. Ma non è così. I paramilitari, guidati dal generale Mohammad Hamdan Daglo detto Hemetti, sono dappertutto anche negli ospedali “saccheggiati” e appaiono più un esercito di occupazione che una forza di sicurezza interna”.
Massimo A. Alberizzi
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