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Africa ExPress
Dal Nostro Inviato Speciale
Massimo A. Alberizzi
Nairobi, Mombasa e Malindi, giugno 2019
La prima cosa che salta agli occhi cercando le tracce di Silvia Romano, la ventitreenne milanese sequestrata la sera del 20 novembre a Chakama, in Kenya, è che le indagini sono state abbastanza carenti, che c’è una competizione tra le varie polizie dell’ex colonia britannica e tra queste e l’esercito che si è occupato di scandagliare tutto il territorio al confine con la travagliata Somalia. Di Silvia non si sa niente dal momento della sua scomparsa. Sparita nel nulla. A parte il silenzio stampa chiesto dalla Farnesina – un atteggiamento di routine che serve più a mantenere segreti inconfessabili che a salvaguardare la vita degli ostaggi o l’inquinamento delle relative indagini – in questi casi si riesce sempre ad avere qualche informazione. Questa volta no. Niente. Sconsolante.
“Scusi, ma Silvia Romano ha dormito qui?”. La signora indiana che gestisce la guest house Marigold, nel caotico centro di Mombasa, non solo è gentile, ma anche collaborativa. Così, dopo averle spiegato perché stiamo indagando sul rapimento, chiama subito il figlio Aash Sahiko che si presenta con i registri degli ospiti. Dopo una veloce ricerca arriva la risposta: “Sì, è stata qui il 22 settembre e la notte tra il 5 e il 6 novembre”. Hillary Duenas, la collega americana che mi accompagna e che sarà molto importante nell’aprire bocche apparentemente cucite, chiede e ottiene il permesso di fotografare le pagine. Ogni dettaglio è prezioso. Chiediamo: Silvia è venuta qui sola? “Certo – è la risposta -. Ha pagato il prezzo della camera singola. E’ arrivata sola ed è ripartita sola”. Aash Sahiko se la ricorda bene: “Una bella ragazza così, resta impressa. Ero contento quando l’ho vista per la seconda volta in novembre”.
Ma è venuto qualcuno della polizia keniota o agenti italiani a chiedere informazioni su Silvia?, chiediamo. “No, nessuno. Quando abbiamo saputo del suo rapimento ci siamo preparati a ricevere la visita di qualche investigatore e ci siamo meravigliati che non siano comparsi i poliziotti”. Io ed Hillary ci guardiamo sorpresi: com’è possibile che nessun inquirente si sia fatto vivo per verificare che la ragazza fosse sola?
Silvia, bella, giovane e dinamica, non poteva non attrarre le attenzioni di qualche ragazzo. Infatti erano in tanti a farle la corte o addirittura a dichiararle grande amore, come Alfred Scott un fisioterapista dell’ospedale di Mombasa che su Facebook proclama di essere innamorato della milanese.
Alla polizia di Nairobi sul rapimento vengono formulate tre ipotesi: sequestro per ottenere un riscatto, sequestro per tapparle la bocca su accuse di pedofilia di cui sarebbe stata testimone a Likoni, stesso movente ma per molestie a Chakama, villaggio nell’entroterra di Malindi.
Silvia arriva per la prima volta in Kenya il 22 luglio dell’anno scorso. Aveva conosciuto un italiano, Davide Ciarrapica durante una festa di beneficenza. Il trentunenne di Seregno gestisce un centro per bambini a Likoni, un villaggio separato da Mombasa da un braccio di mare che si può superare con un traghetto. La ragazza intravede la possibilità di fare qualcosa a favore dei più deboli. Così quel giorno si imbarca per Mombasa con lui. Imbarazzante una dichiarazione rilasciata verbalmente da Ciarrapica a un detective keniota. Impossibile per me riportare qui i particolari scabrosi. Riferisce costernato l’investigatore: “Senza alcun pudore Davide, durante un colloquio il 15 maggio scorso, racconta che Silvia, durante il viaggio in aereo, gli è saltata addosso. Piuttosto strano mi è sembrato un modo per screditarla ai miei occhi. Io non gli ho creduto”.
Silvia resta al Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centredi Davide per un mesetto, poi torna a Milano. Il 5 novembre rientra in Kenya. All’aeroporto di Mombasa, va a riceverla Ciarrapica. Insieme vanno a Likoni, ma lei ci resta poche ore. A fine giornata torna a Mombasa e si ferma a dormire al Marigold. La mattina dopo corre a Chakama, insieme a due nuovi volontari appena arrivati, nella struttura di Africa Milele, la onlus per cui lavorerà: obiettivo aiutare i bambini.
All’attracco del traghetto Likoni-Mombasa ci dà appuntamento una mamma che conosceva bene Silvia. Quando le chiediamo di raccontarci qualcosa della permanenza della ragazza quaggiù, scoppia in lacrime: “Le voglio bene, le voglio bene. Spero che torni presto. Io avevo tre bambine in quella struttura, poi le ho ritirate”. Perché? “Accadevano cose poco corrette e imbarazzanti. Tornate a casa le mie figlie riferivano di strani atteggiamenti di Davide e del suo socio, Rama Hamisi Bindo”. Invano Hillary abbraccia la signora cercando di consolarla. Il pianto continua a dirotto.
Un keniota che lavorava nel Centro di Ciarrapica, racconta: “No, non credo che ci siano stati casi di pedofilia, però un giorno mi hanno allontanato dicendo: ‘Conosci troppi segreti di questo posto. E’ meglio che tu vada via’. Licenziato in tronco”.
Una visita al Hopes Dreams Rescue Sponsorship Centre lascia confusi e stupefatti. Hillary – che tra l’altro è anche medico e così si presenta – all’entrata viene accolta da una signora che si illumina in volto: “Ah, grazie al cielo, dottoressa. Lei è venuta qui per quella quattordicenne incinta”. Evidentemente no, ma desta perplessità anche il fatto che Davide arrivi con la sua girlfriend, una stupenda diciassettenne.
Dopo la sua prima esperienza a Chakama, Silvia rientra in Italia, promettendo comunque a Davide che organizzerà a beneficio del suo centro, incontri di beneficienza per raccogliere fondi. Cosa che fa in ottobre. Ritorna il 5 novembre e va a Likoni, giusto il tempo per essere accolta freddamente dai bambini, che hanno l’ordine di restare sull’attenti immobili e di non salutarla, e da Davide, che l’accusa di non aver raccolto sufficiente denaro. I bambini africani fanno sempre una gran festa alla gente, specie quella che conoscono e che ha giocato tempo prima con loro. Quei ragazzini restano invece impietriti. “Davide è un collerico irascibile – racconta un altro ex impiegato -. Ecco perché in Italia recentemente è stato condannato a 6 anni di reclusione e 35 mila euro di danni per aver staccato a morsi un orecchio durante una rissa in una discoteca di Milano”.
Racconta uno degli inquirenti kenioti che sta cercando di dipanare l’intricata matassa: “Abbiamo avuto indicazioni che Silvia manifestasse un certo disagio nei confronti della struttura dove, secondo lei, si verificavano molestie nei confronti dei piccoli ospiti. Quell’organizzazione è guardata con una certa benevolenza dalle autorità locali. Il socio e amico di Davide Ciarrapica, nonché proprietario della villa che la ospita, Rama Hamisi Bindo, è figlio di un famoso politico e gode di protezioni insospettabili”. Trasecolo. Scusa? Ripeti bene. “Sì, gode di protezioni potenti”. Io e Hillary ci guardiamo increduli. Io, perché credo di aver capito male; lei perché, essendo americana, ha capito benissimo.
La polizia di Mombasa, secondo il nostro testimone che teme ritorsioni e mi intima per ben tre volte di non pubblicare il suo nome, non è mai intervenuta con la dovuta determinazione per indagare sul caso: “Ecco un rapporto riservato critico sul comportamento di come sia stata condotta l’indagine laggiù”, mormora tirando fuori dal cassetto un documento assai compromettente. Lo leggiamo ma non ci permette di fotografarlo.
Audio raccolto da Hillary Duenas
Nella sua deposizione del 15 maggio scorso alla polizia, Ciarrapica, che per altro afferma di essere stato ascoltato dai carabinieri del ROS durante una sua visita in Italia in gennaio, dichiara di aver sconsigliato a Silvia di andare e prendere servizio a Chakama, eppure in una mail che ho potuto vedere, c’è scritto esattamente il contrario. Anzi, è stato proprio lui a consigliarle di andare.
Ma quello che inquieta di più è che all’aeroporto di Mombasa sono spariti tutti i file su Silvia Romano. Ai visitatori che entrano in Kenya viene scattata una fotografia e vengono prese le impronte digitali. Una procedura che deve aver riguardato anche la ragazza milanese. Perché nell’archivio della polizia aeroportuale non c’è niente di tutto ciò?
Riserva sorprese anche l’archivio della polizia di Malindi. L’11 novembre nove giorni prima di essere sequestrata, Silvia, dopo aver chiesto consiglio alla presidente di Africa Milele, Lilian Sora che dall’Italia dà il suo totale benestare, con altri due volontari, Giancarlo e Roberta, si reca alla centrale di polizia a denunciare un keniota che per qualche giorno ha soggiornato nello stesso affittacamere in cui da tempo vivono i volontari dell’associazione, Francis Kalama di Marafa, pastore anglicano: lo accusano di atteggiamenti equivoci nei confronti di alcune bambine.
Una ricerca approfondita sui registri delle querele della polizia non porta a nulla. Gli agenti che se ne occupano e controllano i faldoni, allargano sconsolati le braccia.
Eppure in un messaggio audio whatsapp (che si può ascoltare qui sotto), Silvia, che qualcuno dipinge come sprovveduta e che invece si dimostra testarda, legalista e amante della giustizia, racconta con una dovizia di dettagli di essere andata alla polizia e di aver avuto l’assicurazione che Kalama sarà arrestato e “le bambine sottoposte a un test medico”. Particolare assai pesante. La promessa comunque non avrà seguito: Kalama è uccel di bosco, sparito. Di lui nessuno ha più traccia, tanto meno gli investigatori, né si pensa abbia mai avuto notifica della denuncia.
Uno dei capi della polizia racconta a sua volta che in cella ci sono tra persone: un keniota giriama, l’etnia che abita sulla costa del Paese, Moses Luari Chende; un keniota di etnia orma (quella accusata di aver organizzato il sequestro), Gababa; e un somalo con un documento d’identità keniota ottenuto illegalmente senza la necessaria e obbligatoria procedura, Ibrahim. “Loro sanno sicuramente qualcosa ma sono degli esecutori. Aspettiamo che facciano i nomi dei mandanti”. Già, ma in Kenya fare i nomi di chi ha ordinato un rapimento è come suicidarsi. Hillary mi chiede: “Ma perché il vostro governo non garantisce la sicurezza in Italia? Una taglia e un permesso di soggiorno per chi fornisce informazioni sarebbero assai utili”. Una domanda banale, cui non trovo una risposta.
Salta fuori anche una critica della polizia all’esercito: “Ha chiuso le frontiere con la Somalia, ma non è stato assolutamente cooperativo con le indagini. Certo, non è il loro compito, ma loro sono andati anche in villaggi remoti, dove per noi è difficile arrivare.”
Sempre alla polizia di Malindi scuotono la testa a sentire parlare degli inquirenti italiani: “E’ venuto qui il console onorario, Ivan del Prete, con un altro paio di persone ma non ha fatto granché. Ha chiesto informazioni, come sta facendo lei. Niente di più”.
Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
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Ha collaborato
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