Massimo A. Alberizzi
Nairobi, 11 giugno 2019
Sempre più confusa la situazione in Sudan dove continuano le manifestazioni della popolazione, nonostante il pesante e violento attacco del 3 giugno al sit-in davanti al quartier generale dell’esercito che ha provocato oltre cento morti. Il presidio permanente è finito ma a Khartoum posti di blocco sorgono spontanei per sbarrare il traffico.
Il Transitional Military Council – che sta gestendo il potere dall’11 aprile, quando, dopo mesi di dimostrazioni di piazza, è stato defenestrato il dittatore da trent’anni al potere, Omar Al Bashir – ha annunciato di aver arrestato un imprecisato numero di militari accusati di aver aperto il fuoco sui dimostranti provocando il massacro.
Ma ci sono ancora notizie di civili accoltellati per strada e donne aggredite e violentate in casa propria da sconosciuti. Gang di paramilitari terrorizzano la popolazione. Scendono da auto di passaggio bloccano civili indifesi, li picchiano a sangue e li lasciano sull’asfalto gravemente feriti o moribondi. Le denunce arrivano dalla Sudanese Professionals Association, l’associazione delle professioni che conduce la protesta e ha la leadership della Alliance for Freedom and Change, l’alleanza di tutti i gruppi democratici, che indica come responsabili i paramilitari del Rapid Support Forces, i janjaweed che hanno cambiato nome e ne hanno acquistato uno più nobile, ma non hanno rinunciato ai loro metodi truculenti.
Amira Osman, ha raccontato di almeno cinque casi di stupro, tre ragazze e due ragazzi.Un video, impubblicabile per la crudezza delle immagini visionato dal Fatto Quotidiano a Nairobi, mostra uno dei miliziani che, in una tenda da campo durante l’attacco al sit-in dei dimostranti, strappa i vestiti a una ragazzinae la violenta. La SPA sostiene che durante il violento attacco gli stupri sono stati almeno settanta, tutti messi a segno degli uomini della RSF.
Torna così la paura dei janjaweed, i crudeli e sanguinari miliziani al servizio del governo che atterrivano le popolazioni civili in Darfur. Janjaweed è un neologismo il cui significato è più o meno “diavoli del terrore a cavallo”. Entravano nei villaggi (specie di notte) aprivano il fuoco indiscriminatamente, ammazzavano gli uomini, rapivano bambini e bambine e, prima di incendiare le capanne, violentavano le donne. Si allontanavano poi drogati e ubriachi, sghignazzando istericamente.
Il massacro ha disperso il sit-in davanti al quartier generale dell’esercito che durava da aprile ma ora l’opposizione, per rilanciare l’iniziativa politica ha optato per lo sciopero generale. Lunedì i negozi erano chiusi e sui social sono stati postati video che mostravano le strade di Khartoum e della città gemella, separata solo da un ponte sul Nilo, Omdurman, deserte. Durante gli sporadici scontri con la polizia, almeno 3 civili sono stati uccisi.
“La situazione instabile e confusa – commenta un diplomatico nella capitale sudanese – dimostra che c’è una spaccatura nell’esercito. Da un lato chi vorrebbe intervenire con decisione e chiudere i conti con un bagno di sangue, dall’altro che intende recepire le richieste di democrazia e apertura sociale”. Insomma, l’ala militare legata al vecchio di dittatore, da cui ha ottenuto prebende, favori e privilegi, resiste e non vuole assolutamente lasciare il potere. Ma i giovani (e soprattutto le donne che stano giocando un ruolo importante in questa rivolta), la borghesia e le classi popolari questa volta non intendono abbandonare la lotta.
Massimo A. Alberizzi
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