Speciale per Africa ExPress e Il Fatto Quotidiano
Massimo A. Alberizzi
17 maggio 2019
Sono quasi sei mesi che Silvia Romano è stata rapita a Chakama e di lei non si sa più nulla. Notizie provenienti da sciacalli sono state diffuse senza alcuna verifica. Comportamenti sciagurati che hanno fatto traballare le speranze della famiglia, madre, padre e sorella, oscillate tra speranze di rivedere Silvia viva e vegeta e terrore di non poterla rivedere mai più.
Ora si apre uno spiraglio, che fa un po’ sperare in una soluzione del grave episodio criminale. La ragazza milanese potrebbe essere stata testimone di un episodio di violenza e qualcuno avrebbe potuto farla rapire per evitare le gravi conseguenze provocate da una sua possibile denuncia.
Ma Silvia ha scritto tutto in un suo memoriale. E’ bene che resti in vita perché un eventuale suo omicidio su commissione potrebbe avere effetti ancora più gravi e devastanti per i mandanti del suo rapimento.
Nei mesi scorsi più volte sono state messe in giro notizie inventate secondo cui la giovane milanese sarebbe stata portata dai suoi rapitori in Somalia. Il contesto somalo è complicato e difficile, ma nell’ex colonia italiana – dove tutto è distrutto (Mogadiscio è ridotta a un cumulo di macerie), gli attentati sono continui, ci si muove solo con una buona scorta armata facendo attenzione ai banditi e alle gang di tagliagole islamici, dove la vita non vale niente e si può essere ammazzati per una bottiglietta di Coca Cola – una cosa funziona a dovere: le telecomunicazioni. Non è quindi difficile parlare con qualche leader governativo, qualche signore della guerra o addirittura qualche capo islamico (c’è perfino qualcuno che incarna tutte e tre le figura assieme). Bene, un’indagine in proposito porta a una sola conclusione: Silvia Romano non è mai stata portata in Somalia.
Per parlare invece di Chakama, occorre conoscere il contesto del villaggio in cui il 20 novembre dell’anno scorso Silvia è stata portata via da un commando armato. “Si tratta di un territorio completamente a economia rurale lontano dalle vie di comunicazione – spiega qualcuno che conosce molto bene la zona ma che non vuole sia reso pubblico il suo nome -. E’ un grande comprensorio che abbraccia 17 villaggi e sotto villaggi (da noi si parlerebbe di frazioni, n.d.r.), anche in Kenya piuttosto sconosciuto. A Chakama occorre andare apposta, non è un punto di passaggio, dove si capita per caso. E’ lontano da tutto, non arrivano i giornali, non si riesce a captare neppure la radio. Non ci sono negozi se non piccole botteghe, si vive di agricoltura e si campa ancora con il baratto. Non si vedono facce estranee e i pochi forestieri che arrivano vengono immediatamente notati dai locali. Insomma un modus vivendi senza alcuna relazione con il terrorismo organizzato. Quando è stata rapita, Silvia è stata caricata in spalla e portata verso il fiume, piuttosto che su un mezzo verso la strada più comoda e agibile”.
Uno scenario che apre numerose ipotesi ma che lascia anche spazio a parecchie domande. Per esempio, nessuno conosce le ultime telefonate di Silvia perché non si sa dove sia finito il suo telefono che era rimasto nella sua stanzetta di Chakama al momento del suo rapimento. E’ rimasto spento e bloccato per 40 giorni, poi qualcuno l’ha acceso e i messaggi whatsapp che le erano stati indirizzati sono stati ricevuti. Quindi il cellulare è rimasto inattivo ed è rimasto così per settimane.
Altro mistero: che fine ha fatto la scheda telefonica italiana di Silvia. Non era installata su nessun telefono perché lei in Kenya non la utilizzava. Riposta da qualche parte in camera sua nel villaggio dove soggiornava, è sparita.
Gli inquirenti italiani si sono recati in Kenya e a Nairobi, la capitale dell’ex colonia britannica, hanno avuto colloqui con i loro omologhi locali. Si è discusso delle indagini senza grande soddisfazione. Gli inquirenti kenioti mostrano una sorta di reticenza a parlare della vicenda di Silvia Romano. Perché? Hanno commesso qualche errore nelle ricerche? Hanno battuto realmente tutte le strade? Oppure, ipotesi inquietante: è coinvolto qualche pezzo grosso? Il Paese non è certamente un esempio di trasparenza, ma di solito su queste cose, da qualche anno, si mostra assai collaborativo con i nostri investigatori. Proprio qualche mese fa dalle parti di Malindi sono stati arrestati alcuni italiani che dovevano sanare i loro conti con la giustizia del nostro Paese. Forse qualche forte pressione diplomatica potrebbe portare a una chiara definizione della questione e non è detto che la ragazza non potrebbe tornare finalmente a casa. Perché nessuno ha pensato di stanziare una ricompensa seria (non i risibili 8 mila euro messi a disposizione delle autorità keniote) per chi darà notizie certe sulla sorte di Silvia?
Massimo A. Alberizzi
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