Massimo A. Alberizzi
14 maggio 2019
Almeno sette dimostranti, che partecipavano in piazza a Khartoum al sit-in contro i militari, e un ufficiale dell’esercito, sono stati ammazzati domenica a tarda notte a sangue freddo, poche ore dopo l’annuncio di un accordo per nominare un governo di transizione misto. Diversi militanti sono stati feriti assieme a due soldati. Non è ancora ben chiaro a chi appartenga la mano omicida. I manifestati accusano le autorità, i soldati hanno addossato la colpa a elementi estranei “infiltrati nella protesta”. Sembra proprio però che l’attacco al cuore della piazza miri a fare deragliare il processo di pace, il cui obbiettivo è quello di varare un governo di transizione a partecipazione comune, civili-militari, per arrivare a elezioni democratiche e a una nuova leadership.
Lo stringer del Fatto Quotidiano, sentito al telefono a Khartoum, non ha avuto dubbi: “Responsabili del massacro sono i paramilitari della Rapid Support Forces, gli ex janjaweed, i diavoli a cavallo che negli anni scorsi terrorizzavano le popolazioni del Darfur. Attaccavano i villaggi indifesi, massacravano gli uomini, violentavano le donne, rapivano i bambini e bruciavano le capanne. Sono paramilitari che sostengono il presidente Omar Al Bashir, cacciato un mese fa dalle proteste di piazza e ricercato dal Tribunale Penale Internazionale, proprio per quei crimini contro l’umanità perpetrati delle province occidentali del Paese”.
Insomma milizie formate da criminali, cui il governo sudanese ha affidato il controllo delle frontiere settentrionali per bloccare il passaggio dei migranti, un compito finanziato – ufficialmente, con forniture logistiche, camionette, fuori strada, carburante e attrezzature diverse, ma non con denaro – dall’Unione Europea, con il concorso dell’Italia, ai tempi dell’amministrazione Gentiloni.
Secondo il nostro stringer: “Erano giorni che sul lungo Nilo si potevano veder passare automobili nere con a bordo presumibili agenti in borghese. Oggi nelle piazze erano tutti convinti che gli omicidi siano stati premeditati e organizzati per fare saltare gli accordi per arrivare a un governo civile”.
Certamente i gravi episodi di ieri avvalorano la tesi che una parte dell’élite militare del Paese non intende lasciare il potere. La piazza ha dato segni in insofferenza quando pochi giorni fa portavoce dell’amministrazione transitoria dei militari è stato nominato il generale Shams al-Din Kabashi. Trent’anni fa, 30 giugno 1989, quando Omar Al Bashir prese il potere e comparve in televisione per annunciare il successo del suo colpo di Stato, alle sue spalle era comparso proprio Kabashi. Ovvio il nervosismo della folla che protesta dal 18 dicembre dello scorso anno e in questi mesi ha sempre chiesto la rimozione di tutti gli ufficiali compromessi con il regime di Al Bashir.
Per altro Kabashi, in una conferenza stampa tenuta nella notte, ha tenuto a dichiarare che i soldati hanno l’ordine di non sparare sui civili e “mai spareranno”.
L’attacco di ieri segue di qualche ora l’annuncio del procuratore generale secondo cui l’ex presidente è stato incriminato per gli omicidi di manifestanti l’11 aprile scorso. Una notizia accolta con tripudio e giubilo dai dimostranti accampati da mesi davanti al quartier generale delle forze armate a Khartoum. Qualche settimana fa Al Bashir è stato accusato di riciclaggio di denaro e distrazione di fondi pubblici. In molti a Khartoum sostengono che ex dittatore sia già scappato all’estero: “Perché non lo fanno vedere in manette o dietro le sbarre?”, si è domandata una militante che ha parlato solo con garanzia dell’anonimato.
Ieri a tarda sera un portavoce del Freedom and Change Alliance (l’Alleanza per la Libertà e il Cambiamento), Taha Osman, ha spiegato come l’accordo per un governo comune con i militari sia già a buon punto: “Abbiamo trovato un accordo per un consiglio sovrano (una sorta di presidenza comune, ndr), un governo e un parlamento. Dobbiamo ora negoziare la loro composizione e il periodo di transizione”.
Massimo A. Alberizzi
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