Franco Nofori
5 maggio 2019
Un paio di successi, ma molte più sconfitte, sembra essere il bilancio della presenza militare AMISOM (African Mission in Somalia) promossa dall’Unione Africana per contrastare l’attività del gruppo terroristico Al Shebab, che controlla tuttora una larga parte del territorio somalo. Il Kenya partecipa alla coalizione da otto anni con una forza di quattromila uomini, insieme a Uganda, Burundi, Etiopia, Gibuti, Sierra Leone, Nigeria e Ghana per un totale di circa 22 mila uomini, che contano oggi pesanti perdite, stimate in oltre duemila morti. Si tratta di un dato approssimativo, poiché tutti i governi coinvolti nell’operazione sono riluttanti a fornire informazioni più precise e diffondono spesso notizie molto distanti dalla realtà.
Questa situazione è dettagliatamente illustrata nel libro “Fighting for Peace in Somalia” recentemente edito dalla Oxford University Press, con il supporto della George Washington University’s Elliott School of International Affairs, il cui autore è il professor Paul Williams, docente presso lo stesso ateneo. Nella sua ricostruzione degli eventi, Paul Williams, dedica, particolare attenzione al Kenya, al quale riconosce due successi di rilievo: la presa di Chisimaio – importante città e porto della regione – avvenuta nel 2012 e la vittoriosa battaglia di Hoosingo, che ebbe luogo nello stesso anno, in si cui stima perirono oltre cento militanti di Al Shebab. Tuttavia, l’impressione è che questi successi, si siano rivelati del tutto insufficienti a bilanciare la situazione, poiché il Kenya, da solo, conta perdite sul campo dichiarate in centosessanta uomini, che gli osservatori internazionali ritengono ampiamente sottostimate.
Secondo il professor Williams, la cui opera è stata acquisita dall’ONU – principale sponsor del progetto AMISOM – è inconcepibile che una forza così imponente, non riesca a esprimere una superiorità militare nei confronti dei gruppi combattenti di Al Shebab, giungendo anche a soffrire l’umiliazione, toccata al Kenya, di vedere dodici dei propri soldati presi in ostaggio dai guerriglieri, a seguito della pesante sconfitta subita nella battaglia di El Adde nel 2016 (la peggiore sofferta dalle truppe AMISOM) ma solo un anno dopo, il Kenya, ha addirittura subito un attacco di Al Shebab nella propria base di Kulbiyow, in territorio keniano, che ha lasciato sul campo trenta vittime.
“Lo scenario – ha commentato Paul Williams – non potrebbe essere più chiaro: dopo dieci anni di battaglie, l’AMISOM ha dimostrato di non essere in grado di sconfiggere Al Shebab, così come Al Shebab, non è in grado di controllare l’intero Paese, com’era nelle sue attese. Si è così creata una permanente situazione di stallo, che neppure i bombardamenti americani, riescono a risolvere”. Per un efficace controllo della Somalia, occorrerebbe quindi non limitarsi alle incursioni aeree, ma dispiegare forze di terra, cosa che americani e italiani, dopo le terrificanti esperienze dei primi anni ’90, si guardano bene dal fare. Indisciplina e carente addestramento, sarebbero, secondo Williams, alla base degli insuccessi keniani, ma il professore accusa anche i soldati del Kenya di vere e proprie azioni criminali.
Tra queste, ci sarebbero i ricorrenti stupri a danno delle giovani profughe somale; i furti dei loro miseri beni; il costante maltrattamento dei rifugiati e anche il trafugamento del carbon fossile custodito nei depositi di Chisimaio. “Le truppe del Kenya – riferisce Williams nel suo rapporto – hanno infranto il veto delle Nazioni Unite, di esportare il carbon fossile della Somalia e si sono appropriate del 50 per cento dei proventi generati dal porto di Chisimaio. E’ quindi comprensibile che nove somali su dieci, guardino con astio alla presenza dei militari del Kenya nel proprio territorio ”. Dal canto suo, Nairobi ha seccamente smentito queste accuse, dichiarandole del tutto infondate, benché siano state accertate da ispettori appositamente inviati dell’ONU.
Alle considerazioni del professor Williams, si uniscono quelle del giornalista britannico Tristan McConnel, secondo cui “L’ostinata tendenza del Kenya a mentire nelle conferenze stampa e nelle interviste, mostra che si è raggiunta la deprimente conclusione di considerare più attendibili i proclami dei terroristi, delle dichiarazioni del governo di Nairobi”. Un giudizio pesante, questo, che è però difficile confutare. Ma perché il Kenya, pur essendo oggetto di umiliazioni e di riprovazioni internazionali, continua a mantenere attiva la sua forza militare in Somalia, pur se contestata dalla maggior parte dei propri cittadini? Si tratta forse di non voler rinunciare ai contributi ONU o alla possibilità – come attesterebbero le accuse – di depredare la Somalia delle proprie risorse?
A tutto questo e alle perdite sul campo – per una campagna militare che si è largamente dimostrata inefficace – si devono anche aggiungere le diverse centinaia di vittime, che le incursioni terroristiche di Al Shebab producono in territorio keniano, proprio come ritorsione al mantenimento di questa presenza, per non contare la flessione degli arrivi turistici, dovuti al timore (largamente sovrastimato) di attentati. Ne vale davvero la pena? Il professor Paul Williams ritiene di no. “Non si può pretendere di liberare il popolo somalo da Al Shebab, imponendogli soldati stranieri che sono visti come spietati invasori. La Somalia deve raggiungere la propria libertà con una presa di coscienza che germogli e si sviluppi all’interno di se stessa”.
Franco Nofori
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