Speciale per Il Fatto Quotidiano e Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
28 aprile 2019
Appare irritatissimo Giuseppe Conte quando nella conferenza stampa tenuta a Pechino – dove si trova per il Belt and Road Forum for International Cooperation – deve affrontare il caso Regeni. Il premier racconta di aver appena incontrato il presidente egiziano Abd al-Fattaḥ al-Sisi, e di aver discusso della terribile vicenda. Su un quotidiano romano ieri è stata pubblicata una lettera di Paola e Claudio Regeni, genitori del ricercatore triestino assassinato tra il gennaio e il febbraio del 2016. “Quella lettera di chi ha perso un figlio in quel modo, è terribile – ha raccontato Conte -. Rivela circostanze e dettagli che mi hanno turbato. Quando ho incontrato al-Sisi gli hospiegato che parlavo di Giulio non per mera ritualità, ma per una mia personale attenzione, quella del governo e di tutta la popolazione italiana. L’Italia non potrà mai ritrovare pace finché la vicenda non sarà chiarita, finché non ci sarà una verità acclarata che regga sul piano giudiziario”.
Insomma l’Italia non è contenta di come l’Egitto sta gestendo le cose: “Gli ho manifestato tutta la mia insoddisfazione. Non c’è stato nessun concreto passo avanti. E gli ho detto che l’Italia non verrà mai meno all’impegno di cercare la verità, fatta di rilievi oggettivi e inoppugnabili”. L’Italia quindi non si accontenterà di una verità di comodo che lasci impuniti i veri responsabili dell’omicidio del ricercatore: “Vogliamo riscontri plausibili e oggettivi”.
Al-Sisi ha spiegato a Conte che le investigazioni continuano ma dalle parole del premier è apparso chiaro che non ci sono grandi aspettative. In riferimento alle dichiarazioni di Di Maio di qualche tempo fa che aveva minacciato ritorsioni diplomatiche ed economiche, Conte non ha mostrato grande fiducia. “Non abbiamo strumenti diretti per ottenere una verità giudiziaria – ha spiegato -. Anche la nostra magistratura ha avviato un dialogo con quella egiziana, ma non abbiamo nessun mezzo per sostituirci al potere giudiziario di quel Paese. L’unica cosa che possiamo fare è continuare a esercitare pressioni sul presidente al-Sisi e cercare di impiegare su di lui tutta l’influenza possibile”.
Con il presidente egiziano, che governa il suo Paese con il pugno di ferro e reprime ogni dissenso con la forza riempiendo le galere di oppositori, dissidenti, contestatori e critici, Conte ha affrontato anche il problema della guerra in Libia. Al-Sisi, assieme a Russia, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Francia sostiene il generale della cirenaica Khalifa Haftar che dal 3 aprile sta cercando con la forza di conquistare Tripoli. L’Italia invece è schierata, assieme a Gran Bretagna, Unione Europea, Qatar, Turchia e movimenti islamisti, con il governo di Fayaz Serraj, riconosciuto dall’ONU. Gli Stati Uniti, dopo che Donald Trump – cambiando alleanza – ha manifestato il sostegno a Haftar abbandonando Serraj, non si sa bene da che parte stiano.
L’Italia sembra che sia rimasta un po’ disorientata dal cambio di rotta di Washington. Haftar ha chiesto il ritiro del piccolo contingente italiano (400 uomini) che proteggono l’ospedale organizzato dal nostro Paese a Misurata, città controllata da una milizia fedele e Serraj. “Il nostro personale – ha assicurato Conte, rivendicando la neutralità sul campo dell’Italia – non fornisce alcun supporto militare ai combattenti. Aiutiamo la popolazione e i feriti da entrambe le parti. Anzi, poiché siamo in una zona controllata dal governo di Tripoli abbiamo offerto ai feriti di Haftar la possibilità di raggiungere il nostro ospedale via mare. I nostri medici sono a disposizione di chiunque ne abbia bisogno”. Bisogna però chiarire che se un combattente di Haftar ferito trovasse rifugio in un ospedale in zona controllata dalle milizie di Serraj rischia di essere fucilato all’istante appena scoperto, una prospettiva certamente non incoraggiante.
Secondo Conte “Al-Sisi è preoccupato dalla possibilità di infiltrazioni di terroristi dell’ISIS o di Al Qaeda in Egitto, ma ha assicurato che non interverrà mai direttamente; non intende farsi coinvolgere”. Probabilmente è vero che truppe egiziane non andranno mai a combattere al fronte ma, secondo fonti diplomatiche contattate dal Fatto Quotidiano, da tempo consiglieri e istruttori militari inviati dal Cairo sono già presenti nelle retrovie a fianco dei soldati di Khalifa Haftar.
Massimo A. Alberizzi
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