Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 24 aprile 2019
Si sono riuniti ieri al Cairo i leader di Ciad, Gibuti, Ruanda, Congo, Somalia e Sud Africa per discutere la crisi sudanese. Nei giorni scorsi l’ Unione Africana aveva chiesto al Consiglio Militare di Transizione di dimettersi entro due settimane, pena la sospensione dal suo stato di membro. Durante il vertice, invece, il leader egiziano Abd al-Fattāḥ al-Sīsī, presidente di turno dell’Unione, ha comunicato che il periodo di tempo concesso al TMC per dar vita ad un governo civile è stato prorogato di tre mesi.
Peccato che nessuno dei presenti al summit abbia contestato il nome del vice capo del governo di transizione, personaggio ben conosciuto: Mohamed Hamdan Daglo (detto Hametti), attualmente comandante dei paramilitari di Rapid Support Forces (RSF), uno dei capi janjaweed, i diavoli a cavallo che bruciavano i villaggi, stupravano le donne, uccidevano gli uomini e rapivano i bambini per renderli schiavi durante la guerra in Darfur. E con la sua posizione potrebbe diventare l’uomo più potente del Sudan, al servizio del vecchio dittatore Al Bashir per ben trent’anni.
Già dal 21 aprile le contestazioni si sono intensificate e i responsabili della Sudanese Professional Association (SPA), il gruppo che ha organizzato le proteste, hanno interrotto il dialogo con i militari, chiedendo le loro immediate dimissioni.
Ieri il leader del CMT, il generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan, ha avvisato che avrebbe fatto sgomberare i manifestanti in sit-in permanente davanti al quartier generale dell’esercito, ma, ha precisato, “senza l’uso della forza”.
In mattinata per sostenere i dimostranti centinaia di persone sono arrivate da Atbara, roccaforte dello sciolto Partito Comunista. Erano stipate su bus, camion o addirittura sui tetti dei treni. Per rifocillare i manifestanti i contadini hanno portato viveri e altri generi di conforto.
Secondo alcuni testimoni, verso l’ora di pranzo l’esercito avrebbe tentato di sgomberare i blocchi stradali e le barriere costruite dai manifestanti, ma sarebbero stati cacciati via dalla folla.
Mohamed Al-Amine, un portavoce dell’associazione, domenica parlando di fronte alla folla stipata davanti al quartier generale dell’esercito, ha scandito: “Consideriamo l’attuale Consiglio militare come una prosecuzione del regime di Omar al Bashir e chiediamo ai sudanesi di continuare le proteste nelle strade e nelle piazze, finché le nostre richieste non saranno accolte”.
Finora non sono stati resi noti i nomi delle persone incaricate degli affari del Paese, come promesso alcuni giorni fa. La SPA ha specificato che giovedì prossimo presenterà una rosa di nomi che faranno parte del nuovo governo civile, anche senza l’avallo del consiglio militare di transizione. Dora Gombo, un membro dell’associazione, ha specificato che il dialogo tra le due parti si è interrotto, perchè i militari hanno voluto imporre partiti politici vicini al vecchio regime e organizzazioni che non fanno assolutamente parte della coalizione che sta lottando per la democrazia in Sudan: il Freedom and Change (Libertà e Cambiamento).
Sabato scorso rappresentanti dei dimostranti e il Consiglio di transizione militare hanno avuto nuovamente un incontro, durante il quale i leader militari avevano promesso di rimettere il potere al popolo. Burhan in un intervento in televisione ha confermato questa volontà e ha aggiunto che il Consiglio avrebbe risposto la prossima settimana alle richieste della piazza.
Domenica scorsa l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti avevano offerto aiuti per tre miliardi di dollari al governo sudanese. Secondo l’agenzia di stampa saudita, cinquecento milioni di dollari potrebbero essere trasferiti immediatamente alla Banca centrale sudanese per incrementare le riserve di denaro liquido. Mentre il resto sarà devoluto sotto forma di cibo, medicinali e prodotti petroliferi.
Ma il popolo sudanese non ci sta. Senza mezzi termini gli esponenti di Sudanese Professional Association hanno fatto sapere a Ryad e Abu Dabi che i loro soldi non sono graditi. SPA e tutti gli altri manifestanti sono convinti che i due Paesi del Golfo grazie agli aiuti cercano di influenzare il Consiglio militare. E’ bene ricordare che il suo leader, Il generale Burhan, è stato il coordinatore delle truppe sudanesi nella guerra in Yemen, in quanto anche Khartoum fa parte della coalizione guidata dai sauditi per combattere i ribelli huti.
Poche ore dopo la proposta dei due Paesi del Golfo, i manifestanti hanno iniziato a cantare: “Non vogliamo il supporto saudita”.
Certo, da un lato gli aiuti servirebbero davvero, vista la crisi economica che ha investito il Sudan. Le proteste sono cominciate in dicembre proprio perché la popolazione, stanca degli aumenti del prezzo del pane, aveva chiesto una vita più dignitosa. Dall’altro canto la gente è più che mai convinta che basti una buona leadership per far quadrare i conti del Paese.
E guarda caso, durante una perquisizione nell’abitazione dell’ex presidente Al Bashir, attualmente detenuto in una prigione di Khartoum, sono stati trovati soldi in contanti in euro, valuta americana e sterline sudanesi per un valore di centotredici milioni di dollari, che prontamente sono stati sequestrati dalle autorità competenti.
Cornelia I. Toelgyes
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