Franco Nofori
Torino, 20 aprile 2019
Paul Kagame, l’attuale presidente del Ruanda, non è certamente nuovo a iniziative quantomeno sorprendenti. Nel gennaio scorso aveva ordinato il sequestro di quaranta terreni agricoli perché non risultavano convenientemente sfruttati nel rispetto dei termini per cui erano stati concessi. Ad aprile dello scorso anno, aveva messo al bando oltre seimila luoghi di culto, tra cui alcuni islamici, che speculavano sull’ingenuità popolare. Oggi approda a un’iniziativa tanto discussa quanto singolare: rilevare il codice DNA a dodici milioni di cittadini ruandesi.
Il dichiarato scopo della decisione di Kagame è rendere più agevole la repressione del crimine, rilevandone gli esecutori; accertando i responsabili degli stupri e la paternità di bambini abbandonati. L’intento è indubbiamente lodevole, ma si scontra con il fermo dissenso delle associazioni per i diritti umani le quali ritengono che i dati raccolti possano consentire al governo di farne un uso inappropriato, violando i basilari principi di uguaglianza e riservatezza di tutti i cittadini. Si tratta di una preoccupazione non proprio infondata giacché la Cina è sospettata di usare il DNA per individuare e opprimere la minoranza islamica degli Uighur che vivono prevalentemente nella provincia di Xinjiang. La rilevazione del codice sarebbe stata attuata grazie alla pretesa di offrire un check-up gratuito a oltre 35 milioni di cittadini.
Nel 2015, anche il Kuwait aveva approvato una legge che consentiva la creazione di una banca dati in cui far confluire tutti i codici DNA dei propri cittadini, ma prima ancora che questa norma fosse implementata, fu annullata dalla Corte Costituzionale perché in aperta violazione dei diritti umani e della libertà personale. Tuttavia, anche laddove questa rilevazione non sia autorizzata, la sua attuazione resta pur sempre facile, come dimostra l’escamotage cinese, che ha consentito a Pechino di rinchiudere in “Campi di rieducazione” oltre un milione d’islamici cinesi individuati grazie al DNA.
Paul Kagame, non ha nel proprio Paese un’efficace opposizione e gode di un largo consenso popolare del tutto meritato per essere riuscito a risollevare le sorti della nazione dal genocidio del 1994 quando l’etnia hutu al potere massacrò quasi un milione di tutsi in meno di cento giorni. E’ quindi probabile che la sua scelta, almeno internamente, non sarà contrastata. Kagame è anche riuscito a riscattarsi da un passato personale non del tutto edificante, trasformando il proprio Paese – a confronto di larga parte di quelli africani – in un vero gioiello di pulizia e di ordine dove la corruzione è pressoché inesistente. Certo è che neppure lui potrà restare a lungo insensibile alle pressioni internazionali contro la decisione che intende adottare.
Franco Nofori
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