Speciale per Il Fatto Quotidiano /Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
17 aprile 2019
La notte scorsa è stata un incubo per gli abitanti di Tripoli. Una gragnola di missili Grad, di fabbricazione sovietica, si è abbattuta sui quartieri civili, il particolare su quello di Abu Slim nel centro della capitale, e i due arcinemici, il governo del primo ministro Fayez al Serraj e l’esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar, si sono accusati vicendevolmente della carneficina: poco meno di 200 morti. Naturalmente le due parti negano qualunque responsabilità, ma il premier è andato oltre: ha annunciato di avere prove schiaccianti sulle responsabilità del suo avversario che deferirà alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. Haftar invece accusa le milizie “islamiste per convenienza” (cioè quando fa a loro comodo) del gruppo Aghnewat, di Misurata, pagate dal governo, che in passato si sono macchiate di parecchi crimini, compreso i sequestri di persona. Guerra di nervi e di comunicati che, se mai ce ne fosse bisogno, gettano ancor più confusione nel teatro libico.
L’ultimo atto l’ha compiuto il portavoce di Serraj, colonnello Mohammed Qnounou. Durante una conferenza stampa l’ufficiale ha annunciato che l’aeronautica governativa ha colpito le retrovie di Haftar e i convogli incaricati di provvedere al trasporto dei suoi rifornimenti. Ma si è lasciato sfuggire una battuta: “Abbiamo monitorato tutto con i satelliti”. Qualcuno, sapendo che la Libia non possiede satelliti, gli ha chiesto chi avesse mai messo a disposizione quegli strumenti di guerra: “Segreto di Stato – ha risposto. Aggiungendo però – Sappiate che abbiamo ottimi rapporti con il governo e con i militari italiani”. Altro messaggio subliminale a Roma?
Ghassan Salamé, l’inviato speciale dell’ONU in Libia, ha condannato la strage di civili senza però attribuire colpe e cause. Così la sua dichiarazione è comparsa su diversi siti, forzata da titoli fuorvianti che invece hanno letto nelle parole di Salamé attribuzioni di responsabilità all’uno o all’altro dei contendenti.
Anche sui bombardamenti con i missili dell’altra notte ci sono stati, come accennato qui su, scambi di accuse. La televisione filo governativa Panorama ha mandato in onda e messo sulla sua pagina web alcuni filmati di distruzione e morte, sostenendo che erano stati girati nel rione di Abu Slim. Lo stringer de Il Fatto Quotidiano, cui è stato chiesto un parere, ha controllato e scoperto che si tratta di alcune sequenze girate nel 2015 in Yemen. Quello che invece è stato possibile appurare e che l’attacco ai civili è stato un errore di tiro perché il quartiere si trova nel bel mezzo delle linee di combattimento: i missili dovevano colpire gli avversari, invece hanno sbagliato obiettivo .
Il fallimento della diplomazia è sotto gli occhi di tutti. Salamé si sgola chiedendo una tregua che nessuno vuole accettare (è stata respinta anche quella di due ore chiesta congiuntamente con la Croce Rossa, per soccorrere i civili intrappolati tra le macerie dei palazzi bombardati) mentre proseguono frenetici i colloqui tra i Paesi interessati.
Non è un mistero che i fondamentalisti si siano schierati dalla parte di Serraj e che Haftar abbia scatenato l’attuale offensiva, cominciata il 4 aprile, annunciandola proprio come volontà precisa di cacciare i terroristi dalla capitale. Ma se si dà un’occhiata agli schieramenti in campo, si rimane sorpresi e perplessi dal groviglio di interessi e dall’intreccio di alleanze. Dietro Serraj, oltre ai gruppi integralisti, troviamo Gran Bretagna (la banca centrale libica è gestita da società londinesi), il Qatar (accusato in Siria di fiancheggiare il terrorismo), gli Stati Uniti (che hanno lanciato quelle accuse rivelando finanziamenti e conti correnti), la Turchia (il governo Erdogan è molto “aperto” verso gli islamici), l’Italia e ONU.
Dietro Haftar oltre all’Egitto (Paese arabo numero 1 contro il terrorismo), Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti (che hanno finanziato il governo di Bengasi mettendo a disposizione i loro titoli di Stato e arcinemici del Qatar), Russia (il terrorismo islamico è forte in quel Paese e almeno 4 mila ceceni combattono con ISIS in Siria) e infine Francia (che ha grossi problemi con le formazioni jihadiste in Ciad e in Mali).
Massimo A. Alberizzi
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