Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 13 aprile 2019
I cambiamenti climatici, la forte e costante crescita demografica, la povertà estrema sono terreno fertile per le violenze nel Sahel. Dal Mali, al Burkina Faso fino al Niger, la fame e l’insicurezza camminano a braccetto. La scarsità di risorse possono essere fonte di violenti scontri.
Anche se lo scorso anno i raccolti sono stati discreti e i prezzi sui mercati locali si sono leggermente abbassati, permettendo così anche ai meno abbienti di procurarsi il minimo indispensabile, i partecipanti alla Rete per la prevenzioni delle crisi alimentari (RPCA), che si sono riuniti all’inizio del mese, hanno manifestato grande preoccupazione. Si tratta degli Stati dell’Africa dell’ovest, le istituzioni regionali, le associazioni di produttori e le organizzazioni dell’Onu incaricate di lottare contro la fame e la malnutrizione.
L’assassinio di oltre centosessanta persone di etnia fulani, tra loro anche donne e bambini, nella regione di Mopti, nel centro del Mali, ha scosso tutti. Il 23 marzo si è consumato un vero e proprio massacro che viene attribuito ai gruppi di autodifesa dogon. Scontri tra comunità sono sempre più frequenti. Sékou Sangaré, commissario dell’agricoltura della Comunità Economica dell’Africa occidentale (CEDEAO) ha sottolineato che bisogna dare risposte concrete a agricoltori e allevatori per evitare tali scontri.
Insicurezza e fame si sovrappongono nel Mali, in tutto il Sahel, dove non piove più da gennaio. Acqua e foraggio scarseggiano. Oltre alla presenza di terroristi jihadisti, ora anche piccoli gruppi armati impediscono l’accesso ai pochi pascoli ancora disponibili e il lavoro nei campi. Le tacite regole di convivenza pacifica nel mondo agropastorale, che, in un certo qual modo in passato rappresentavano una risposta ai conflitti, sono state spazzate via.
E gli esperti che hanno partecipato al simposio sanno ben che dietro questa crisi si nascondono radici profonde, che si nutrono dei cambiamenti climatici, del forte impatto demografico e della conseguente diminuzione di risorse naturali a disposizione.
Anche secondo Gilles Chevalier, esperto dell’ONU sulla resilienza in Africa occidentale, la radicalizzazione non è altro che la conseguenza di fattori che interagiscono tra loro, la cui origine sono le privazioni subite dalla popolazione in zone dove lo Stato è poco presente o totalmente assente.
Per capire cosa sia realmente successo nella zona di Mopti lo scorso 23 marzo, l’ONU ha inviato un team di dieci esperti in diritti umani, un agente per la protezione dei minori; dell’équipe fanno parte anche due investigatori di MINUSMA (Missione dell’ONU in Mali). Ancor prima di terminare le indagini gli esperti hanno raccomandato alle autorità di Bamako di combattere l’impunità, ancora largamente diffusa.
Anche la Corte Penale Internazionale dell’Aja invierà una delegazione in Mali, perché, secondo Fatou Bensouda, procuratore capo del tribunale dell’ONU, questi crimini potrebbero essere di competenza di CPI.
La popolazione ha risposto contro la carneficina con una massiccia manifestazione a Bamako una settimana fa. La marcia di protesta contro il governo è stata fortemente voluta da influenti leader religiosi come Mahmoud Dicko e Bouyé Haïdara. I dimostranti urlavano slogan come “Quando è troppo é troppo” e “Barkhane e MINUSMA, andate via da casa nostra”. Il portavoce dell’imam Dicko non ha risparmiato nemmeno il governo e ha sottolineato: “Ibrahim Boubacar Keïta non è in grado di governare, non sa risolvere i problemi sociali e quelli inerenti alla sicurezza”.
Solo pochi giorni prima il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha fatto sapere che si sarebbe espresso nei prossimi giorni sul futuro di MINUSMA, presente nel Paese dal 2013. Il Consiglio ha chiesto al segretario generale Antonio Guterres di presentare un’opzione per adattare il mandato, in scadenza nei prossimi mesi, in modo significativo, per poter sostenere in modo più efficacie l’applicazione del trattato di pace firmato nel 2015.
Il Gruppo di sostegno dell’islam e dei musulmani ha rivendicato domenica scorsa l’attentato durante il quale è stato ucciso un medico militare francese, Marc Laycuras. Il 2 aprile il medico è stato ucciso durante un’esplosione dopo che la sua autovettura blindata è passata sopra una mina nella regione di Gourma, al confine con il Burkina Faso. La formazione terrorista, molto attiva nell’Africa occidentale e nel Sahel ha trasmesso la rivendicazione dell’attacco tramite un messaggio indirizzato a Wassim Nasr, giornalista di France 24.
Barkhane, il contingente francese presente in tutto il Sahel con attualmente quattromilacinquecento militari, dispiegati in cinque Paesi (Ciad, Mauritania, Niger, Mali e Burkina Faso), ha inviato all’inizio del mese settecento uomini nella regione di Gourma, nella parte centrale del Mali. Per una decina di giorni i soldati francesi, insieme ai colleghi maliani sono stati impegnati nell’operazione Tiésaba-Bourgou nelle foreste di Foulsaré (al confine con il Burkina Faso) e Serma. Queste due aree ospitano basi dei jihadisti e secondo lo Stato maggiore di Parigi almeno trenta membri di gruppi armati terroristi sarebbero stati messo fuori combattimento.
Con l’esplosione di nuove violenze e l’intensificarsi di operazioni militari nel centro e nel nord della ex colonia francese, dall’inizio dell’anno oltre ottantasettemila civili hanno dovuto lasciare le loro case. Gli operatori umanitari sono in difficoltà per far fronte alla crisi umanitaria nel Paese. Gli sfollati sono ben settantunmila in più rispetto allo scorso anno.
La recrudescenza delle violenze è legata sopratutto alla propagazione di gruppi armati di autodifesa, di gruppi radicali e un forte aumento della criminalità, in particolare nelle zone di frontiera dei Paesi del G5 Sahel (Mauritania, Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso). Ma anche le operazioni militari inducono i civili a fuggire in quanto anch’esse rendono difficile l’accesso ai beni di prima necessità e ai servizi sanitari.
Il Consiglio norvegese per i rifugiati ha fatto sapere che dall’inizio dell’anno sono state uccise quattrocento persone, tutte civili. Un tributo troppo alto, che aumenta di anno in anno. Gli sforzi della comunità internazionale nel Sahel si sono sopratutto concentrati nello sviluppo di strategie volte alla sicurezza, senza tener particolarmente conto dei bisogni, delle necessità umanitarie, generate proprio con l’intensificarsi delle violenze e dei conflitti.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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