All’alba una colonna di militari ha circondato a Khartoum il quartier generale delle Forze Armate,
che ospita anche la residenza del presidente/dittatore Omar Al Bashir, arrestato e trasportato
in un posto sicuro. In manette anche parecchi membri del governo. Esultanza tra i manifestanti.
Un gruppo di militari ha preso possesso della radio annunciando il cambio del regime.
Il ministro della Difesa Ahmed Awad Ibn Auf ha assunto la direzione ad interim
Massimo A. Alberizzi
11 aprile 2019
Le proteste che stanno infiammando le piazze del Sudan, continuano ora interrotte da 5 giorni. I dimostranti che chiedono le dimissioni del presidente/dittatore Omar Al Bashir, salito al potere con un colpo di Stato militare il 30 giugno 1989, sono ormai schierati a migliaia in un sit-in permanente davanti al quartier generale dell’esercito, all’interno del quale è ospitata la residenza del capo dello Stato. Forze militari hanno circondato anche l’aeroporto internazionale e si vocifera che Bashir abbia già lasciato il Paese. Almeno centocinquanta politici sono stati arrestati nelle ultime ore.
Secondo fonti dei dimostranti le forze di sicurezza in questi ultimi giorni hanno ucciso almeno 14 militanti (portando il numero di morti a 22 dall’inizio delle dimostrazioni). Ma a sparare sarebbe stato un gruppo di mercenari assoldati nella Repubblica Centrafricana, che sfuggono al controllo degli apparati militari sudanesi e prendono ordine direttamente dalla presidenza della Repubblica. Alcuni di questi sono stati individuati dei dimostranti e, una volta disarmati, sono stati picchiati a sangue e salvati da morte certa dai soldati.
Tra i 22 uccisi ci sono anche 5 soldati che avevano tentato di difendere i dimostranti dagli attacchi degli agenti dei servizi segreti. Già perché si sta verificando una profonda spaccatura all’interno del governo. Da una parte i fedelissimi di Al Bashir, che hanno intessuto i loro traffici all’ombra della dittatura che ha dato loro coperture e protezioni. Dall’altro l’esercito, che in più occasioni è intervenuta a dar man forte ai dimostranti difendendoli dalla polizia.
Un paio di giorni fa alcuni ufficiali sono scesi a parlare e trattare con gli agenti convincendoli a sgombrare la piazza dove è in atto il sit-in per impedire che per contenere la gente fossero usati idranti, gas lacrimogeni, proiettili di gomma, insomma per evitare una prova di forza.
La protesta è scoppiata spontaneamente il 18 dicembre, quando è stato annunciato che il prezzo del pane sarebbe stato triplicato. Dapprima sono scesi in piazza le classi più povere della popolazione, ma quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, già colmo di indignazione e rabbia. Il malcontento ha preso forza e coraggiosamente è emerso in tutta la sua dimensione. A prendere le redini sono state le associazioni professionali, che finora erano state controllate sempre e ferreamente dal regime.
Come un fiume in piena, la dimostrazioni, cominciate ad Atbara, snodo ferroviario del Sudan e roccaforte 50 anni fa dell’allora potente partito comunista sudanese, sono tracimate in tutto il Paese, El Gedaref, Kassala, Port Sudan investendo anche la capitale Khartoum.
Solo negli ultimi giorni è apparso chiaro che anche l’esercito, dai cui ranghi proviene lo stesso Bashir, non ne può più di una dittatura che oltre a negare le libertà politiche e civili, si è legata mani e piedi ai cinesi che ora hanno invaso le strade e i palazzi più importanti e lussuosi della capitale. In Sudan è in vigore la sharia, la legge coraniche, che tra le altre cose proibisce severamente l’uso di bevande alcoliche. Ma nei ristoranti cinesi, sorti come funghi, tranquillamente si può chiedere di pasteggiare con birra, che non viene servita di nascosto in bottiglie di Coca Cola ma nelle normali lattine. La polizia che tutela morale islamica non entrerà mai in quei locali.
I dimostranti in piazza chiedono ai militari di cancellare il loro sostegno a Bashir, ma non vogliono un colpo di Stato, bensì la formazione di un governo di transizione e di riconciliazione nazionale.
In Sudan oltre ai mercenari del Centrafrica che avrebbero sparato e ucciso i dimostranti, ci sono altri gruppi di sicurezza privata che potrebbero intervenire a difesa di Bashir. Primi tra tutti i “gorilla” del gruppo Wagner, ex miliari dei Paesi dell’ex Unione Sovietica dislocati un po’ dappertutto nel Paese. Pochi ma ben armati ed addestrati.
Ma quelli che se scendessero in campo potrebbero fare veramente paura e annientare in poche ore la pacifiche dimostrazioni di protesta sono i janjaweed, i feroci diavoli a cavallo utilizzati qualche anno va nella guerra in Darfur. Attaccavano i villaggi, ammazzavano senza pietà gli uomini, violentavano le donne e rapivano i bambini.
Manovrati da Bashir, sono stati utilizzati per attaccare le inermi popolazioni darfuriane cosa che è costata al dittature un mandato di cattura emesso nel marzo 2009 della Corte Penale Internazionale. L’allora procuratore Louis Moreno-Ocampo che lo incriminò per 10 capitoli diversi (cinque per crimini contro l’umanità, compreso l’incitamento allo stupro, tre per genocidio, due per crimini di guerra), era stato categorico, parlando di precise responsabilità nel deliberato massacro dei civili delle tribù fur, masalit e zagawa che abitano il Darfur. “Il suo alibi – aveva scritto Moreno-Ocampo nella sua durissima e circostanziata richiesta di arresto – è combattere la ribellione, il suo intento è il genocidio. Non mi prendo il lusso di supporre: ho prove indiscutibili”.
Sempre secondo le accuse di Moreno-Ocampo, “il presidente sudanese controlla tutto l’apparato dello Stato e usa questa sua influenza per coprire la verità e proteggere i suoi subordinati e la loro smania di genocidio”.
Si calcola che in Darfur siano state ammazzate 300 mila persone e che due milioni siano stati costretti a scappare dalle loro case. Bashir già pochi mesi prima del mandato di arresto si era rifiutato di consegnare due sospetti di genocidio: il ministro per gli affari umanitari, Ahmad Harun, e uno dei capi delle feroci milizie filogovernative, i janjaweed, Ali Khashayb. Omar Al Bashir è l’unico presidente in carica ad essere stato incriminato.
Massimo A. Alberizzi
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