Franco Nofori
Torino, 7 aprile 2019
“Meglio tardi che mai”, recita il detto popolare, quando un’annosa questione viene finalmente chiarita. Questa sembra essere oggi l’intenzione del presidente francese Emmanuel Macron, a proposito delle pesanti ombre che gravano sul comportamento dell’Eliseo, durante il terrificante massacro del 1994 in Ruanda. Gli hutu massacrarono oltre ottocentomila tutsi, in soli cento giorni. Una mattanza che, per numero di vittime e per il breve periodo in cui fu compiuta, non ha eguali nella storia. Senza contare le migliaia di persone che, pur restando in vita, subirono orrende mutilazioni e che ancora oggi offrono testimonianze viventi sulla ferocia di un mattanza che ha fatto inorridire il mondo.
Certo che, un chiarimento – se tale sarà – cui si approda dopo venticinque anni dai fatti, lascia un sapore amaro in bocca, perché non pochi superstiti del massacro, non sono più in vita e non potranno quindi compiacersene. Da diversi anni il governo ruandese accusa la Francia di gravi complicità nel genocidio, per aver sostenuto, con soldi, strategie e training militari, i suoi esecutori, prima, durante e dopo il suo compimento. Accuse, queste, rilanciate anche da altri Paesi, come Stati Uniti e Regno Unito oltre che da varie NGO, tra cui, la più attiva, ha proprio sede a Parigi: la Julien Allaire of Survie secondo cui, il coinvolgimento francese nel deprecabile evento “risulta da chiare e inequivocabili evidenze”, sempre tenute segrete dall’Eliseo.
In effetti, nel 2015, l’allora presidente, Francois Hollande, sottoposto a pressioni internazionali, dichiarò che il dossier “Ruanda” doveva rimanere secretato, in ossequio al disposto costituzionale, secondo cui, un atto archiviato da un presidente o da un ministro della repubblica, poteva diventare pubblico solo dopo venticinque anni dalla morte di chi l’aveva secretato. In questo caso, si tratterebbe quindi del presidente Francoise Mitterand, deceduto nel 1996, due anni dopo il genocidio in questione. E’ pertanto probabile che, pur se le indagini, promesse da Macron, saranno attuate oggi, le risultanze non potranno essere rivelate prima del 2021, posto che, a detta di molti giornalisti investigativi, la semplice apertura del dossier svelerebbe tutto il necessario, senza il bisogno di ulteriori investigazioni.
Secondo il governo ruandese e altri osservatori internazionali, la Francia, stretta alleata del governo hutu, all’epoca presieduto da Juvenal Habyarimana, fornì fin dal 1990, un significativo supporto alla leadership in carica ignorando colpevolmente i massacri che stavano avvenendo sotto i suoi occhi. Sempre secondo tali accuse, la Francia fu anche colpevole di aver offerto rifugio e protezione agli esecutori dei massacri, utilizzando allo scopo le proprie truppe inquadrate nel contingente delle Nazioni Unite che erano invece in Ruanda allo scopo di impedirli.
Accuse molto gravi, finora ripetutamente negate da Parigi, ma che hanno fatto infuriare il Ruanda, fino a decidere, nel 2006, sotto la presidenza di Paul Kagame, di rompere i rapporti diplomatici con l’Eliseo, rapporti poi ripresi nel 2009, quando il Paese africano entrò nel Commonwealth.
Un accenno di distensione, nei rapporti franco-ruandesi, si è verificato nel 2010, quando Nicolas Sarkozy, in visita di cortesia in Ruanda, ammise alcuni errori del proprio Paese, commessi durante i massacri del 1994. Tuttavia, malgrado questa vaga ammissione, nessun presidente francese, assisté mai alle annuali commemorazioni del genocidio, tenute nella capitale ruandese, Kigali. Anche all’ultima ricorrenza, che si celebra oggi 7 aprile in ricordo dell’anniversario dell’inizio del genocidio, Emmanuel Macron, benché invitato da Paul Kagame, si è detto impossibilitato a partecipare, causa “impegni precedentemente presi”. Scelta non proprio ideale, per favorire una distensione dei rapporti tra i due Paesi orami da troppi anni avvelenati da accuse e sospetti.
Fin dall’unilaterale attacco alla Libia, promosso dal presidente Sarkozy nel 2011, che segnò la fine di Muammar Gheddafi, ma gettò anche il Paese nordafricano nel caos, la Francia continua a mettere in atto una pesante politica d’ingerenza in molti Paesi africani, per favorire – a detta degli osservatori internazionali – i propri interessi commerciali. Stando a quanto recentemente riferito da Béchir Saleh, braccio destro del colonnello libico – oggi rifugiato in Sudafrica – Sarkozy, volle punire Gheddafi perché questi non aveva onorato l’impegno di acquistare armi francesi per un valore di quattro miliardi di dollari. Questo è quanto ha dichiarato lo stesso Béchir Saleh, in un’intervista resa a France 24 e al giornale Jeune Afrique, aggiungendo che fu lui stesso a condurre le trattative con Sarkozy per conto del leader libico.
Non meno criticata, è l’imposizione del Franco CFA che riguarda quattordici Paesi africani e che, secondo la Francia, ha lo scopo di proteggere tali Paesi dalle fluttuazioni dei cambi, ma che, secondo altri osservatori, serve unicamente a Parigi, per rimpinguare i propri fondi e coprire con questi il debito pubblico.
Un altro sconcertante episodio, verificatosi recentemente nell’Alta Savoia, dove un ex agente dei servizi segreti francesi è stato ucciso a sangue freddo con cinque colpi di pistola, lascia intravvedere inquietanti coinvolgimenti dell’Eliseo nel tentativo di assassinio di un esule Congolese, avversario dell’attuale presidente del Congo-Brazzaville, Denis Sassou-Nguesso sostenuto da Parigi. Insomma, pare proprio che alla potente economia transalpina, non manchino cadaveri nell’armadio.
Franco Nofori
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