Massimo A. Alberizzi
Aprile 2019
L’arrivo all’aeroporto di Kigali lascia sorpresi. I pavimenti sono puliti, luccicanti, non c’è carta per terra e nessun segno di immondizie. Il divieto di fumare è totale. Ma la sorpresa più grande è riservata al controllo di polizia e di dogana poco prima dell’uscita. Gli agenti non cercano droga, sigarette o liquori di contrabbando ma sacchetti di plastica, vietatissimi nell’ex colonia tedesca.
Già, nonostante la Germania non abbia più niente a che fare con il Ruanda esattamente da un secolo, nel piccolo Paese al centro del continente, tutto ancora parla tedesco. A cominciare dalla pulizia dell’aeroporto, dalle strade asfaltate senza un buco, dalla birra, assieme a quella della Namibia (altra ex colonia tedesca) la migliore del continente, alla velocità entusiastica di internet o all’ossessione maniacale (ma certamente condivisibile) del bando completo per la plastica monouso. I poliziotti sono gentili ma inflessibili (e non corrompibili): i sacchetti o la pellicola con cui si imballano spesso le valigie, devono essere lasciati in aeroporto.
I ruandesi sono precisi e meticolosi e, come i tedeschi lo sono stati con lo scempio della shoah, i loro cugini africani cinquant’anni dopo hanno messo a punto la tecnica sperimentata in Europa, cercando anche loro la “soluzione finale”. In cento giorni dal 7 aprile 1994 il regime che allora governava il Paese, dominato da una dirigenza cattolica di etnia hutu, ha sterminato più o meno un milione di persone. Il Ruanda, tutto il Ruanda, è impazzito in preda a un odio razziale scatenato: famiglie che si spezzavano irrimediabilmente, mariti hutu che ammazzavano le mogli perché di origine tutsi, persone che abitavano nello stesso villaggio, pur avendo convissuto pacificamente per secoli con “gli altri”, incendiavano la capanna del vicino perché della tribù diversa.
In preda a una follia collettiva, tutti si trasformavano in potenziali assassini, compreso quell’italiano Giorgio Ruggiu, naturalizzato belga, speaker di Radio Mille Colline, l’emittente del regime, che dai microfoni incitava gli hutu “a prendere il machete e schiacciare i tutsi come scarafaggi” perché “le tombe sono in attesa di essere riempite”. In quei giorni le strade di Kigali erano diventate rosse intrise di sangue.
Dopo 25 anni in Ruanda le ferite sono ancora aperte. Non c’è famiglia che non abbia avuto un morto in casa. Forse l’odio è scomparso ma il desiderio di rivincita no. Il regime, dominato dai tutsi, di Paul Kagame, l’uomo che 25 anni fa ha fermato il genocidio e impedito la totale distruzione della nazione, ha centrato alcuni obbiettivi: far crescere economicamente il Paese, dotarlo di un’amministrazione efficiente e poco corrotta e di servizi – sociali ma non solo – sicuramente sopra gli standard africani. Ma per bloccare sul nascere tentativi revanscisti, non ha potuto trasformarlo in una democrazia compiuta, che prevedesse libertà di esercizio dei diritti politici, elezioni libere e una stampa priva di condizionamenti.
Secondo recenti analisi economiche il prodotto interno lordo del Ruanda era di 9,14 miliardi di dollari nel 2017. Se l’andamento di crescita sarà rispettato dovrebbe superare nel 2020 i 10,20 miliardi. Il reddito pro capite, che nel 1995 era di 125 dollari, ora è passato a oltre 800. Un bel traguardo per un Paese incastrato tra le montagne, senza uno sbocco al mare e che ha il sistema produttivo ancorato soprattutto alla coltivazione del the.
Pochi mesi fa Grace, una ragazza tutsi scampata al genocidio perché con la sua famiglia era già fuggita in Uganda pochi mesi prima dell’inizio della mattanza, intervistata a Juba, in Sud Sudan dove lavora come front desk manager in un albergo, confessava: “A Kigali tutti hanno paura di parlare liberamente. Nascondono le loro emozioni non vogliono che l’interlocutore capisca cosa pensano esattamente. Ci portiamo appresso lo stigma del genocidio. Temiamo che da un momento all’altro possa accadere di nuovo. Ecco, è come se ci fosse una mancanza di fiducia negli altri. Siamo tutti un po’ nemici tra noi”.
In queste condizioni non c’è un grande spazio per la competizione politica. Anche se i partiti sono ammessi, le accuse di divisionismo etnico, di favorire gli antagonismi tribali, di accendere antichi rancori pesano come una spada di Damocle: “In queste condizioni come si può pensare che qualcuno vada in piazza e durante un comizio attacchi duramente il governo o anche un’amministrazione comunale? Rischierebbe di finire immediatamente in prigione”.
Ma le contraddizioni del Ruanda sono comuni a quei Paesi africani che con grande fatica cercano di coniugare democrazia e sviluppo. Spesso da queste parti sono due termini antitetici. Ci aveva provato in Etiopia il primo ministro e uomo forte Melles Zenawi, amico e protettore di Paul Kagame. Fece crescere il suo Paese e tentò la strada della democrazia. L’opposizione gli scatenò contro antichi rancori tribali e così, poiché stava per perdere le elezioni tirò fuori l’asso nella manica: i brogli.
Il dilemma di Paul Kagame a 25 anni dalla mattanza è questo: se continua a governare con il pugno di ferro facendo concessioni minime sul piano della democrazia e dei diritti può piazzare il suo Paese in cima alla classifica africana. Se invece si converte alla democrazia alla giustizia e alla libertà rischia di fare rimpiombare il Ruanda nel caos. Non vorrei esser nei suoi panni.
Massimo A. Alberizzi
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