Si vota in Libia, un test per misurare la consistenza degli islamisti

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Speciale per Il Fatto Quotidiano e Africa ExPress
Massimo A. Alberizzi
29 marzo 2019

In un clima di paura e sospetto stamattina si vota in Libia per eleggere gli amministratori locali in una quindicina di circoscrizioni su un centinaio. Un test soprattutto per sondare la consistenza, non in termini di voti ovviamente ma di potenza di fuoco e capacità di condurre attentati, degli islamisti dell’ISIS e di Al Qaeda. Interessante poi sarà osservare se chi perderà le elezioni accetterà il verdetto delle urne o si opporrà, armi in pugno.

Il mandato delle amministrazioni locali è scaduto l’anno scorso e le odierne elezioni arrivano in un momento assai particolare. Forse siamo veramente al punto di svolta: o si prosegue sulla strada della pace oppure si torna indietro verso la guerra totale.

La situazione sul terreno è sempre fluida e in movimento. La parte occidentale del Paese è controllata dal governo di Fayez al Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite, da Stati Uniti, da Gran Bretagna, Italia, Qatar. La parte orientale è in mano al generale Khalifa Haftar e al suo Esercito Nazionale Libico che gode del supporto logistico di Russia, Francia, Emirati Arabi ed Egitto.

Poi il sud, il Fezzan desertico e inospitale dove c’è una forte presenza di Haftar ma anche di milizie freelance che cambiano uniforme a seconda delle convenienza: predoni, contrabbandieri, islamisti, terroristi, predicatori…

Pochi giorni fa il ministero degli interni di Tripoli ha lanciato un’allerta generale su possibili infiltrazioni di miliziani fondamentalisti nella capitale. Ma sulla città, lentamente ma con una certa determinazione, stanno avanzando anche gli uomini del generale Haftar.

Il punto focale dell’attale test elettorale è Sabrata a una settantina di chilometri a ovest di Tripoli e a un centinaio dal confine tunisino. La città è un crogiuolo di tutte le forze in campo in Libia: ufficialmente è controllata da una milizia fedele al governo di Serraj, ma che gode di una ampia autonomia gestionale. Alcuni quartieri sono in mano agli uomini di Haftar che convivono “quasi” amichevolmente con i governativi (il “quasi” è d’obbligo). E’ forte però la presenza dei fratelli musulmani e c’è una compenetrazione di cellule di terroristi fedeli ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico e/o all’ISIS.

Serraj e Haftar si sono incontrati in gran segreto ad Abu Dhabi in febbraio e si sono accordati per tenere questa tornata elettorale ma, soprattutto, per organizzare le presidenziali entro fine dicembre. Inoltre da lunedì al 16 aprile si tiene Ghadames, un villaggio-oasi nel deserto, dove si incontrano i confini di Libia, Algeria e Tunisia, la conferenza di riconciliazione nazionale, per mettere a punto tutti i dettagli del processo di pace, tra cui la composizione di un nuovo governo di coalizione con Serraj presidente e due vice, uno dei quali sarebbe Haftar.

Quest’ultimo mira a non entrare nel governo ma piuttosto ad occupare il posto di capo dell’esercito, una posizione che fa para a molti. Sarebbe come mettergli in mano le chiavi di un colpo di Stato. Se le posizioni di Serraj e di Haftar sono abbastanza chiare e definite resta l’incognita degli integralisti dislocati al confine meridionale dell’ex colonia Italiana.

Un giornale vicino ad Haftar ha pubblicato un lungo reportage in cui si racconta che a metà febbraio gli uomini dell’Esercito Nazionale Libico, durante una lunga operazione di pulizia in varie città della costa, a Derna a una cinquantina di chilometri a ovest di Tobruk, hanno fatto irruzione in una villa dove si teneva un vertice di terroristi. Tra gli altri due algerini, due egiziani, un mauritano, un marocchino e un maliano. Nello scontro a fuoco che ne è seguito sono stati tutti uccisi, tranne uno che ha confessato e svelato parecchi segreti sulla consistenza delle cellule attive o in sonno sul terreno libico.

Massimo A. Alberizzi