Giuseppe Cassini
marzo 2019
La prima parte di questa memoria la trovate qui. La seconda invece è qui.
AVVERTENZA
Abbiamo pubblicato questo lungo articolo in 3 puntate. Lo sappiamo che è molto lungo e certamente non è molto adatto per la pubblicazione su un giornale online come il nostro. Una lunghezza però dovuta agli interessanti dettagli che contiene. Abbiamo cercato così di onorare la memoria di Ilaria e Miran. Siamo anche d’accordo nella richiesta fatta da più parti di non archiviare il caso a patto però che si usino le energie per esplorare anche altre strade e la si smetta di voler caparbiamente ricercare un complotto che finora non è stato dimostrato. Onore a Ilaria Miran che hanno svolto il loro lavoro con onestà e competenza. E chi vuole essere un loro collega onesto e caparbio ripensi anche alla responsabilità che ha avuto certa stampa per indirizzare in una sola direzione la ricerca della verità. I veri responsabili di quest’assassinio hanno goduto nel vedere tutti gli sforzi utilizzati per allontanare i sospetti verso di loro.
Africa ExPress
UN SOLO TESTIMONE…
Durante la missione in Somalia, mentre lavoravo a sbrogliare l’intricata matassa clanica, ripetevo ai capi delle varie fazioni che il governo italiano era impegnato a far luce sull’omicidio del 1994. Ma incontravo solo reazioni evasive: in genere si incolpava un clan rivale oppure gli italiani. Il “fortilizio” della Commissione Europea era presieduto da un somalo con passaporto tedesco, Ahmed Washington, di cui avevo e ho tuttora piena fiducia. Fu lui che mi offrì di incontrare un testimone oculare del duplice omicidio, un certo Ahmed Ali Rage detto Gelle, disponibile a riferire quanto aveva visto e saputo. Washington non lo conosceva di persona, ma tramite un suo amico intimo, Shino, aveva incontrato Abdessalam Ahmed Hassan, persona da loro ritenuta affidabile, che affermava di conoscere bene questo Gelle. Qual era il tramite lo spiegai agli inquirenti a Roma e Ahmed Washington lo confermò in seguito alla Commissione parlamentare. L’attendibilità di Gelle? Non poteva essere riscontrata diversamente, ma si sapeva che era stato l’autista di inviati italiani con loro piena soddisfazione, e che al momento lavorava per la DJP, una ONG tedesca di tutto rispetto.
L’incontro con Gelle avvenne il 25 luglio 1997. Come deve comportarsi un pubblico funzionario se gli viene presentato da contatti affidabili un individuo che si dichiara informato di un delitto? Congedarlo con tanti saluti? Il Ministero avrebbe congedato me, e senza tanti saluti. Mio ovvio dovere, quindi, era informare subito la magistratura. Tornato a Roma, il 6 agosto riferii tutto al procuratore generale, Salvatore Vecchione, aggiungendo che il teste era disposto a parlare purché venisse garantita la sua incolumità con un permesso prolungato di soggiorno in Italia.
Perciò mi fu ordinato di scortare Gelle fino a Roma, dove il 10 ottobre 1997 fece la sua deposizione in Questura e il giorno dopo al procuratore Franco Ionta: “All’epoca dell’omicidio ero addetto al trasporto dei giornalisti dell’Ansa, fra cui Remigio Benni, ed ero stabile presso l’hotel Amana. Quel giorno mi trovavo lì in attesa di lavoro, appoggiato a un muretto, con due del mio stesso clan Abgal. Davanti c’era un banco che vendeva tè e qat, e una Land Rover blu con a bordo alcuni somali intenti a parlare e bere tè. Sul posto saranno state presenti una decina di persone – a parte quelli a bordo della Land Rover – e di queste conoscevo tale Hussedin Bahal, del clan Abgal, di circa 35-40 anni. A un certo punto arriva una Toyota bianca con a bordo i due inviati”. Gelle descrive il tragico finale, precisando di aver visto il ragazzo di scorta sparare per primo e parte degli assalitori rispondere a raffica. Quindi prosegue: “Conosco una delle persone che erano a bordo della Land Rover. Si chiama Hashi detto Faudo (Faudo significa fuorilegge). Era seduto accanto al guidatore e non era sceso, pur essendo armato. Dopo circa 15-20 giorni l’ho incontrato al bar Fiat e gli ho chiesto perché avevano ucciso gli italiani; mi ha risposto che volevano rapinarli, ma l’uomo di scorta aveva sparato e loro avevano risposto al fuoco. Mi ha detto che era stato un incidente, perché volevano solo rapinarli. Non ho chiesto altro, perché avevo paura di farmi vedere troppo interessato. Non conosco i nomi degli altri sulla Land Rover, ho però sentito dire che sono tutti del clan Harti-Abgal. Vedendoli potrei riconoscerli. Penso che a Mogadiscio diverse persone sanno i nomi degli assassini, ma hanno paura. Io ho parlato solo perché sono in luogo sicuro”.
Gelle rimase a Roma due mesi e mezzo. Gli venne dato un alloggio e un lavoro, ma mancando di parentele claniche in Italia a fine dicembre scomparve. Quando ne fui informato non mi sorpresi più di tanto, conoscendo i costumi somali e il loro nomadismo. Ma ciò che mi lasciò allibito fu il seguito. Con un paio di telefonate a Mogadiscio seppi che:
1) Gelle se n’era andato in Germania, dove aveva qualche amicizia, e ai primi di gennaio aveva fatto domanda d’asilo a Colonia.
2) L’ufficio competente per i richiedenti asilo, il Zentrale Bundesamt für Anerkennung von Flüchtingen (tel. 49 221 924260), l’aveva trasferito nella vicina città di Düren, nel Centro della Charitas per gli emigranti (Flüchtlingsunterkunft).
3) Per rintracciarlo bastava rivolgersi al Zentrum für Migration und Sozialberatung di Düren (tel. 49 2421 58887) o all’interprete ufficiale dei profughi somali a Colonia.
I numeri di telefono e gli altri dettagli li ottenni dal nostro Consolato a Colonia e trasmisi tutto a chi di dovere. Ancora non mi capacito che, con gli stretti rapporti esistenti fra le polizie dei due Paesi, le nostre autorità non abbiano saputo riportare in Italia il testimone-chiave, senza il quale non si poteva procedere a un formale ed essenziale contraddittorio in aula. Infatti, la Corte d’Assise dichiarò in primo grado Hashi non colpevole.
E’ chiaro che Gelle mirava a emigrare come tanti suoi connazionali. La Germania, in particolare, era considerata un eldorado: si favoleggiava che gli Asylanten ricevessero 700 marchi al mese, una fortuna per qualsiasi africano. Resta un mistero, invece, per qual motivo una persona di discreta levatura culturale come Gelle abbia indicato fra tanti possibili assalitori proprio Hashi, se è vero che quel giorno – come dirà a propria difesa – non si trovava neppure in città.
Nell’estate del 1997 era scoppiato lo scandalo delle torture inflitte da militari italiani su dei somali ed erano spuntate come funghi le presunte vittime in cerca di risarcimenti. In assenza di un vero governo se ne fece garante la “Somali Intellectual Society”, un’associazione riconosciuta da (quasi) tutte le fazioni. Il 17 novembre ricevetti dalla S.I.S. una lettera contenente 19 nomi di “vittime” di varie atrocità: il secondo della lista era Hashi Omar Hassan, colui che Gelle aveva indicato quale partecipante all’aggressione dei due inviati. Quando chiesi alla S.I.S. di restringere la lista ai casi davvero seri, furono defalcati parecchi nomi ma non quello.
…. CONTRO UN SOLO IMPUTATO
Ma chi era Hashi Omar Hassan detto Faudo? Un ragazzone che, senza batter ciglio, sosteneva a Mogadiscio di essere stato torturato da militari italiani e poi “buttato in mare dal porto vecchio con le mani e le gambe legate e un cappuccio sulla testa, assieme ad altre 18 persone il 27 dicembre 1993” (sic). Che cosa viene in mente ascoltando una storia del genere? Può solo venire in mente Edmond Dantès chiuso in un sacco e gettato in mare dal Castello d’If. Ma poteva Hashi aver letto “Il Conte di Montecristo”? Lo escluderei, eppure aveva una fantasia degna di Alexandre Dumas.
Questa fanfaronata la ripeterà agli inquirenti il 15 gennaio 1998 a Regina Coeli dopo l’arresto per concorso in omicidio: “E’ vero che ho subito violenza dai militari italiani. Fui torturato con spegnimento di sigarette sulla mano e con sostanze caustiche gettate sul capo. Inoltre fui preso e il 27 dicembre 1993 buttato in mare dal porto vecchio di Mogadiscio con le mani legate strette, le gambe legate larghe e un cappuccio sulla testa. Fui buttato in mare con 18 altre persone: di queste, 16 erano legate due a due, e tre erano legate ciascuno per proprio conto. Io riuscii a liberarmi e portarmi in salvo”. Tuttora mi chiedo perché gli inquirenti non gli abbiano formalmente contestato quell’inverosimile motivo addotto per venire in Italia. [8]
Ecco gli altri punti salienti del suo interrogatorio: “Non faccio parte del gruppo che ha aggredito Alpi e Hrovatin. Quel giorno mi trovavo a 300 km da Mogadiscio, in località Adale. Lo ricordo perché mio nonno materno era malato grave, si trovava in campagna e io ero andato a fargli visita; tornato ad Adale, sentii dell’attentato dalla gente del luogo. […] Gelle venne una volta a casa mia a Mogadiscio con un mio conoscente, Shino Maclow. Mi chiesero se potevo riferire all’ambasciatore italiano i maltrattamenti subiti da parte dei militari italiani. Io acconsentii e con Gelle e Shino mi recai dall’ambasciatore Cassini. Egli mi diede da leggere una lettera in cui comparivano i nomi di 5 persone torturate dicendomi che erano gli unici casi verificatisi, mentre altri casi erano dubbi. Quindi mi aiuterà a far chiarezza e impedire denunce non rispondenti al vero. Mi offrì soldi in cambio della mia collaborazione”. Quest’ultima frase – una grave menzogna – assume un sapore surreale qualche riga dopo: “Non ho mai pensato di vendicarmi delle torture subite. Ma dopo quell’incontro Gelle mi disse che l’ambasciatore voleva notizie sull’omicidio e che se mi fossi auto-accusato mi avrebbe dato un compenso”. Ma perchè uno dovrebbe accusarsi di omicidio in cambio di soldi per poi venire in Italia e presumere di farla franca?!
Il 15 gennaio 1998 il Ministero degli Esteri emette un comunicato che non lascia adito a dubbi: 2L’ambasciatore Cassini ha prestato l’indispensabile assistenza per trasferire in Italia 11 cittadini somali [le presunte vittime di torture]. Nessuno di quei nominativi è stato da lui inserito nella lista. Nello specifico di Hashi Omar Hassan, il nome è stato indicato fin da ottobre dalla “Somali Intellectual Society” e sempre da essa riconfermato. Nel ribadire che le accuse all’ambasciatore Cassini di aver erogato somme di denaro a testimoni somali sono prive di fondamento, la Farnesina sottolinea la trasparenza con cui sta contribuendo fattivamente alla ricerca della verità”.
L’arresto di Hashi provoca qualche protesta a Mogadiscio. Un sedicente “Tribunale Islamico” spedisce il 28 marzo 1998 un mandato di comparizione (in italiano traballante) che trascrivo fedelmente: “AL SIGNOR GUSEPPE CASSINI PRESSO SUA PRESENZA. Il Tribunale Islamico ordino al Sig. Giueppe Cassini di presentarsi entro 30 giorni al Tribunale Islamico di Mogadisco. La data comincia dal momento scrivente di questo avviso, affinché risponda ad uno quella aperta in questo Corte Islamico. In caso di non presentarsi ad adempimento di questo ordine si forma procedimento legale nei coffronti del su nominato Giusseppe Cassini. Firmato: Vice Presedent del Corte Securese e Pinale Islamico in Mogadisco”.
Il 18 gennaio 1999 si apre il processo contro Hashi e il 9 luglio il PM chiede l’ergastolo. Invece, grazie a un po’ di buon senso garantista, la Corte d’Assise di Roma lo assolve, mancando l’imprescindibile contradditorio fra l’imputato e il testimone-chiave d’accusa. Tiriamo tutti un sospiro di sollievo, perché Gelle stesso aveva precisato che Hashi non aveva sparato. Un buon difensore avrebbe perfino dimostrato che Hashi si era trovato nell’auto per caso. Ma il sollievo dura poco, perché il 24 novembre 2000 in appello arriva la mazzata: condanna a 26 anni (e con sentenza confermata in Cassazione nel 2002).
Come ha potuto la Corte d’Appello ribaltare il verdetto precedente? Era successo:
1) che una perizia antropometrica aveva acclarato, grazie al filmato di una tv svizzera, che Gelle era presente sul luogo del delitto: presenza confermata anche da due altri testi ascoltati dalla Digos, Hussedin Bahal e Abdi Jella;
2) che la giuria non doveva aver apprezzato la romanzesca accusa verbalizzata da Hashi contro i militari italiani (sarebbe stato buttato in mare incappucciato e con piedi e mani legate!!!);
3) che la deposizione dell’autista di aver riconosciuto Hashi nella Land Rover, rigettata nel primo grado di giudizio in quanto troppo labile, era stata ritenuta attendibile in appello.
Nel frattempo, dov’era finito il testimone-chiave? Secondo l’Interpol, a gennaio del 1998 si trovava in Germania; il 26 dicembre 1999 era sbarcato a Londra, aveva chiesto e ottenuto asilo politico il 29 marzo 2000; da lì, sposato con Khadra Hussein Arale (e con cinque figli), si era trasferito a Birmingham, al n. 66 di Wilmore Road. Ma quando seppe che Hashi era stato condannato a ben 26 anni di carcere, probabilmente temette una vendetta clanica e si affrettò a telefonare alla BBC in lingua somala per ritrattare la sua testimonianza. (Nei suoi panni avrei fatto lo stesso anch’io, pur di rendere una più equa giustizia a favore di Hashi, che non aveva sparato né, forse, condiviso la repentina decisione di assalire i due inviati).
E’ disdicevole che la magistratura italiana non vi abbia dato seguito, acuendo i sospetti di chi immaginava che “qualcuno” in Italia volesse celare la verità. Allora ci penserà la Rai a realizzare uno scoop: il 18 febbraio 2015 Chiara Cazzaniga, inviata da “Chi l’ha visto?”, intervista Gelle a Birmingham, lo induce a parlare ed egli “conferma”, intimorito, di aver mentito dietro promessa di uscire dalla Somalia (vero) e dietro versamento di denaro (falso). Allora si risveglia la magistratura: dispone la revisione del processo e gli inquirenti della Procura di Roma volano a Birmingham per una rogatoria, in cui Gelle ripete di aver mentito. Ma è quella la verità? Ripeto: non si comprende perché Gelle, di certo presente sul luogo del delitto, avrebbe indicato fra tanti proprio un giovane che il 20 marzo si trovava (a suo dire) lontano da Mogadiscio. Comunque sia, si riapre il processo a Perugia e il 19 ottobre 2016 si conclude con la riabilitazione di Hashi, che però nel frattempo si era fatto 16 anni di galera.
COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA
Dopo anni d’indagini andate a vuoto, il 31 luglio 2003 il Parlamento istituisce una Commissione parlamentare ad hoc, con il compito di “verificare le cause e i motivi che portarono all’omicidio” e di “valutare le possibili connessioni tra l’omicidio, i traffici illeciti di armi e di rifiuti tossici e l’azione di cooperazione in Somalia”. Le Commissioni parlamentari d’inchiesta sono organi di altissimo rilievo politico, ispettivo e conoscitivo: ne sono esempi quelle sulla mafia, sul Vajont, sulla loggia P2, sul terrorismo. Perciò, una Commissione ad hoc per la morte di due inviati la diceva lunga sul rilievo che le attribuiva l’opinione pubblica.
A presiederla fu nominato l’on. Taormina, un’intelligenza mefistofelica votata a servire Berlusconi con leggi ad personam congegnate in modo da sottrarlo ai suoi guai giudiziari. Lo ricordo come una persona indisponente. La sera che fui convocato a Palazzo San Macuto, il 26 ottobre 2004, mi pose una raffica di domande su dettagli così remoti nel tempo che neppure Pico della Mirandola avrebbe saputo raccapezzarsi. In risposta ai miei “non lo ricordo”, mi ammonì con tono da Grande Inquisitore. Ribattei che solo consultando gli appunti presi in Somalia avrei potuto fornire dettagli. Mi concesse due giorni. La sera, anzi la notte del 28 ottobre (la Commissione lavorava a sera inoltrata), ero di nuovo a San Macuto. L’Inquisitore diede una sbirciata alle mie note e sibilò: “A pensar male qualcuno potrebbe dire che le ha scritte adesso…” A quel punto non mi restò che guardare in faccia i parlamentari presenti e precisare che ero lì in qualità di teste e di funzionario dello Stato impegnato alla ricerca della verità.
La Commissione chiuse i lavori il 23 febbraio 2006 con una relazione conclusiva, che analizzava nei minimi dettagli quanto era emerso da ulteriori indagini e dalle deposizioni dei tantissimi testi escussi. Le supposizioni, le congetture, le tesi preconcette si sfasciarono come un castello di carte. Riguardo al mio ruolo in Somalia la Commissione scrisse (pag. 493): “L’ambasciatore Cassini non aveva istituzionalmente compiti investigativi, che svolse invece solo per suo zelo, peraltro sollecitato da alte cariche dello Stato e dalla famiglia Alpi, e spinto dal desiderio di risolvere un caso che, oltre ad angosciare i congiunti delle vittime, ostacolava la formazione di rapporti sereni tra Italia e Somalia”. Ah, lo “zelo”! I parlamentari forse ignoravano che i diplomatici sono piuttosto proclivi a seguire il consiglio di Talleyrand, che da ministro degli Esteri raccomandava ai suoi: «Surtout pas trop de zèle!».
I parlamentari dell’opposizione, non soddisfatti, deposero agli atti una memoria di minoranza dove si leggeva: “Le conclusioni del Presidente sono inaccettabili; chiudono il caso proponendo una verità senza prove”. Ma è facile obiettare che l’onere della prova incombe a chi afferma qualcosa (nella fattispecie l’esistenza di un complotto e di un movente), non a chi – dopo innumerevoli indagini a tutto campo – conclude di non aver trovato nulla che comprovi l’esistenza di complotti e moventi. Come si può provare la non esistenza di qualcosa?
Tuttavia, l’irritazione dell’opposizione era giustificata dalla disinvoltura con cui il presidente Taormina rilasciava interviste come quella del 7 febbraio 2006 a “l’Unità”: “I due giornalisti nulla mai hanno saputo e in Somalia passarono una settimana di vacanze conclusasi tragicamente, senza ragioni che non fossero quelle di un comune atto delinquenziale”. O alla trasmissione radiofonica “La Zanzara” il 5 settembre 2012: “Ilaria Alpi é morta a causa di una rapina. Era in vacanza e non stava facendo nessuna inchiesta, la commissione che presiedevo lo ha accertato. Ho un documento che manterrò privato per rispetto alla sua memoria che racconta tutta un’altra storia”. Documento privato?!
IL RUOLO DEI MEDIA NELL’ALIMENTARE SOSPETTI
La sera stessa del 20 marzo 1994, il Tg3 manda in onda alle 19:00 un servizio in cui si adombra, senza alcun riscontro, che il duplice omicidio sia stata una vera esecuzione: “Una camionetta con sei uomini armati ha bloccato l’auto, gli assassini hanno aperto le portiere e hanno sparato. Ilaria e Miran erano appena tornati a Mogadiscio dopo aver percorso molte località della Somalia e oggi avrebbero dovuto inviare il loro primo servizio. Forse per impedire che la loro testimonianza andasse in onda, forse per lanciare un messaggio terroristico, quelli che le agenzie definiscono banditi hanno ucciso Ilaria e Miran”. Segue alle 20:08 un dispaccio dell’Ansa ancor più esplicito: “Le circostanze dell’uccisione di Alpi e Hrovatin sembrano non lasciare incertezze sul fatto che doveva essere organizzato”.
Già pochi mesi dopo, i genitori Alpi si dicono convinti che la figlia era stata eliminata per aver scoperto fatti compromettenti sulla Cooperazione italiana: una convinzione alimentata dal Tg3 e dalla stampa. Ma bisogna anche capire qual era il sentimento diffuso nell’opinione pubblica d’allora. L’Italia aveva vissuto una lunga strategia della tensione: le stragi di Piazza Fontana a
Milano (1969), di Piazza della Loggia a Brescia (1974), del treno Italicus (1974), della Stazione di Bologna (1980); senza dimenticare il Piano Solo (1964), il caso Moro (1978), la P2 di Gelli (1981). Su ogni sciagura planava l’ombra di di collusioni e coperture da parte di settori deviati dello Stato, prima del Sid e poi del Sismi. E nel 1994 l’Italia era appena uscita dalla stagione delle bombe mafiose (Palermo, Milano, Roma, Firenze) per entrare nella stagione di Berlusconi, che aveva vinto le elezioni proprio una settimana dopo l’assassinio di Ilaria e Miran. Dunque, era forte la tendenza a immaginare la longa manus di “servizi” deviati anche dietro quell’assassinio. Io stesso mi nutrivo di diffidenza. [9] [10]
Ad ogni modo, nulla giustificava il cinismo di certa stampa a sensazione. La Commissione parlamentare non ha fatto sconti al “circuito mediatico” (così lo definisce la relazione conclusiva) montato da giornalisti che hanno sfidato il ridicolo pur di vendere panzane roboanti. Uno su tutti Luigi Grimaldi: proclamava che Ilaria e Miran erano caduti in un agguato organizzato dalla Cia con l’aiuto di Gladio e dei servizi segreti italiani, perché avevano scoperto un traffico d’armi gestito dalla Cia attraverso la flotta della Shifco (sic). Con lui la Commissione non è stata tenera (pag. 625): “Grimaldi ha superato non solo la soglia delle regole deontologiche della professione, ma anche quella della dignità personale. Dinanzi alla Commissione è entrato in contraddizione in innumerevoli occasioni, è stato reticente e ha negato l’evidenza in più occasioni»”. E conclude stigmatizzando “quel sensazionalismo che costituisce l’aspetto deteriore del giornalismo d’inchiesta, quando è svolto senza rispetto delle regole etiche e deontologiche”. [11]
“L’ESECUSIONE”: COME FORZARE I FATTI A CONFERMA DI UNA TESTI PRECONCETTA
Nel 1999 l’on. Gritta Grainer, l’inviato del Tg3 Maurizio Torrealta e i coniugi Alpi pubblicano un libro, “L’esecuzione”, che riporta in dettaglio quanto era accaduto dal 1994 al 1998. Un’opera di successo con pagine commoventi: un messaggio dei genitori alla figlia (“Sappi, tesoro, che tante persone ti hanno tradito, hanno cercato di rendere difficile ogni ricerca della verità”) e un’appendice “In ricordo di Ilaria e Miran”. Ma è un libro a tesi. Ogni fatto, ogni documento, ogni testimonianza, ogni falla organizzativa (inevitabile nel contesto somalo), tutto viene forzato a conferma della tesi preconcetta del complotto e dei depistaggi. Fin dai titoli dei vari capitoli: “Bagagli manomessi” – “Sette navi molto strane” – “Container di armi su una delle navi” – “Prime prove di depistaggio” – “Le menzogne del generale” – “L’ombra dei servizi segreti sulla Cooperazione” – “Il Sismi parla ma non dice” – “Il balletto delle perizie” – “Depistaggi”.
Qualunque accadimento nella vicenda Alpi-Hrovatin viene definito “strano”: [11]
1. “Strano” che i bagagli di Ilaria venissero dissigillati durante il volo Luxor-Ciampino e fossero spariti tre dei cinque taccuini. In effetti fu una manomissione indebita da parte del collega del Tg3 Giuseppe Bonavolontà, che aprì i bagagli per conto della Rai. Ma Giovanni Porzio e Gabriella Simoni, che avevano accuratamente sfogliato i taccuini assieme ai militari sulla “Garibaldi”, attestarono che non contenevano alcunché di rilevante.
2. Mesi dopo – si legge a pag. 29 e 30 – “la Rai invia ai genitori uno strano foglio rinvenuto fra le note-spese dell’ultimo viaggio di Ilaria”. Contiene numeri e frequenze radio che il capo dell’Unità di Crisi della Farnesina aveva prelevato in aereo perché intriso di sangue. Per calmare i genitori il ministro degli Esteri Martino scrive loro: “Nel volo di ritorno fu deciso per motivi umanitari di pulire gli oggetti imbrattati di sangue. Non potendosi lavare il foglietto, si pensò di sostituirlo con una nota in cui si precisava che veniva trattenuto. […] Non dubito però che l’intento fosse positivo”. Ma ai genitori “la spiegazione non risulta convincente: infatti altri oggetti sono pervenuti con vistose tracce di sangue. Prima la rottura dei sigilli; poi il trafugamento di tre block-notes; poi l’asportazione di due fogli con numeri telefonici… Un volo pieno di stranezze”. [Massimo Alberizzi precisò che il foglio era preso dai block-notes forniti dal “Corriere della Sera”, era stato scritto da lui e non conteneva numeri telefonici, in Somalia il telefono non esisteva, bensì frequenze radio per connettere le ricetrasmittenti con i militari italiani e con altri utenti].
3. La scomparsa del Body Anatomy Sketching Report stilato dalla compagnia mortuaria la sera del 20 marzo è ritenuta sospetta. Si legge a pag. 35 e 37: “Il fatto certo è che non riusciranno mai ad avere quel Report e il certificato di morte della figlia. Strano, dal momento che essi ricordano bene il servizio dell’inviato Rai Bonavolontà che aveva citato il certificato di morte. […] La serie di inspiegabili stranezze è ormai lunga. Ai genitori non sono stati consegnati: a) l’elenco degli effetti personali compilato sulla “Garibaldi”; b) il riscontro esterno e le foto scattate sulla nave; c) il Body Anatomy Sketching Report; d) tre dei cinque block-notes di Ilaria; e) due fogli arbitrariamente trattenuti e riconsegnati dopo alcuni mesi; f) la macchina fotografica di Ilaria».
4. Sotto il titolo “Sette navi molto strane” un altro capitolo scova stranezze nell’intervista di Ilaria al Bogor di Bosaso. Le sue risposte erano state insulse; eppure giornalisti, magistrati e due commissioni parlamentari dedicarono ai “traffici” della Shifco migliaia di pagine e ore di lavoro. Senza risultati. Eppure nel libro si legge (pag. 47): “L’intervista al Sultano di Bosaso qualche preciso elemento lo fornisce. Il Bogor parlava di navi; poi di un imprecisato soggetto ‘che veniva da Roma, da Brescia, dal Piemonte’: zone dove il mare non c’è, e Brescia è la capitale della produzione di armi in Italia, e citava la Shifco”… Insomma, dato che Brescia produce armi…
5. Un capitolo intitolato “Nuove tracce, altri indizi” riguarda la Sec, la società che aveva costruito i pescherecci (pag. 94 e segg.): “Il 13/12/1994, pochi giorni dopo il sequestro dei documenti sul finanziamento del ministero degli Esteri alla Sec per le navi da regalare alla Somalia, nella sede della Sec è avvenuto uno strano furto: i ladri hanno asportato oggetti di scarso valore; ma hanno rotto i sigilli apposti dalla Procura all’armadio con i documenti sul finanziamento. E a quello strano furto è seguito uno strano smarrimento: gli otto faldoni dell’inchiesta, accatastati nei corridoi del Palazzo di Giustizia a Roma, sono diventati sette, perché uno è scomparso ed è il faldone principale”. In verità, solo chi non ha mai frequentato quel Palazzo di Giustizia può stupirsi dello “strano smarrimento”.
6. Molto spazio è dedicato a scovare nessi fra l’omicidio, il contingente italiano e i pescherecci Shifco. La Commissione sulla Cooperazione convoca il 5 luglio 1996 il comandante del contingente, Carmine Fiore, che attesta: “Siamo partiti da Mogadiscio il 21 marzo. Quella notte un capitano di una nave civile si è sentito male e l’elicottero l’ha portato sulla ‘Garibaldi’”. Siccome Fiore si era confuso di data, il libro (pagg. 135-144) ci va giù pesante: “Appare strano che il generale Fiore riporti in modo inesatto un episodio che si collocava prima e non dopo un fatto drammatico come il duplice omicidio. Non solo ha taciuto il nome del capitano, ma ha parlato genericamente di ‘un comandante di una nave civile’. Era un peschereccio della Shifco, ma il generale ha avuto cura di non nominarlo”. Il libro prosegue: “A febbraio 1996 pervengono alla Commissione i registri di bordo e di volo delle navi ed elicotteri relativi al marzo 1994. L’onorevole Gritta Grainer accerta che a Mogadiscio nei giorni 19-23 marzo 1994 a terra, in cielo e in mare sono accadute cose davvero strane”. Va a riferirlo al procuratore capo di Roma e uscendo dichiara: “Gli ho consegnato una memoria e copia di documenti acquisiti, da cui emergono inquietanti sospetti di responsabilità del generale Fiore nell’assassinio”. La gravissima accusa si riferisce al capitano che si era sentito male e al fatto che 7 somali erano stati imbarcati sulla “Garibaldi” proprio il 20 marzo (7 come i 7 assassini!). A quel punto deve intervenire il Ministro stesso della Difesa con un duro comunicato: “Nel manifestare indignazione il ministero ricorda – a chi nella parossistica ricerca di uno scoop a tutti i costi non esita a gettar fango in ogni direzione – che il nostro contingente è andato in Somalia per ridare un po’ di speranza a popolazioni duramente provate. Fra le 9:50 e le 10:50 del 20 marzo sette somali furono imbarcati sulla “Garibaldi” per esser trasferiti in Italia, quale riconoscimento per la cooperazione offerta al contingente. Superfluo notare che, essendo l’omicidio avvenuto alle 15:00, i sette sono gli unici in tutta la Somalia con un alibi di ferro”.
7. Fino a luglio del 1997 l’inchiesta sul delitto era in mano al sostituto procuratore Giuseppe Pititto, coadiuvato da Andrea De Gasperis. A me capitò di conoscere Pititto una sola volta: convocato nel suo ufficio a finestre chiuse, fui intossicato dai miasmi dei suoi sigari. Mentre lui fumava senza interruzione, io tossivo senza interruzione. Il 15 luglio il procuratore capo Vecchione avocò a sé l’inchiesta. Si legge a pag. 207-208 del libro: “La motivazione ufficiale dell’improvvisa avocazione è che i due titolari dell’inchiesta, Pititto e De Gasperis, sono in disaccordo sulle iniziative da adottare. Questa improvvisa avocazione è molto strana”. Chiunque ebbe a che fare col carattere di Pititto non ritenne strana quella avocazione
8. “L’esecuzione” prosegue tratteggiando la figura del testimone-chiave (pag. 221 e segg.). “Il 9 ottobre 1997 arriva a Roma un somalo, Ahmed Ali Rage detto Gelle, che dichiara di conoscere i nomi degli assassini e il movente dell’omicidio. Un testimone strano, molto strano, impegnato sopratutto a sostenere la tesi che il traffico d’armi non c’entra e che c’entrano piuttosto le violenze dei militari italiani in Somalia”.
9. “L’esecuzione” riferisce le deposizioni dell’autista Abdi a Roma, che in effetti appaiono confuse e contradditorie. Commento degli autori (pag. 239): “Risulta strano che questa confessione [il riconoscimento di Hashi nell’auto degli assalitori] venga fatta dall’autista solo dieci ore dopo l’inizio dell’interrogatorio. Così come è davvero strano che l’ambasciatore Cassini abbia incontrato per caso l’autista all’aeroporto e lo abbia convinto a venire in Italia, come si potrebbe convincere qualcuno a recarsi al cinema». Certo, sarebbe “strano” se, riguardo a quest’ultimo punto, le cose fossero andate come si legge nel libro; ma non erano andate così.
10. Il caso scatenò la fantasia di tanti millantatori: italiani in cerca di notorietà e somali in cerca di soldi. In quel turbinìo era scontato si moltiplicassero le bufale. Il libro (pag. 266-267) ne avallò in pieno una emersa ad Asti nel 1998: “Dalle intercettazioni della Procura di Asti emerge chiara l’implicazione del servizio segreto militare italiano, se non nell’esecuzione almeno nella copertura dell’omicidio. L’inchiesta astigiana sembra confermare che Ilaria e Miran avessero scoperto un traffico d’armi o forse di rifiuti tossici attraverso le navi della Cooperazione. La scoperta, oltre a vanificare un ricco canale affaristico, avrebbe potuto rivelare le collusioni fra esponenti dei servizi segreti militari, settori della Cooperazione e trafficanti internazionali di armi”. L’inchiesta astigiana finì nel ridicolo.
Si deve alla pazienza dei ministeri degli Esteri e della Difesa di non aver querelato gli autori del volume; anzi, di aver appoggiato i parlamentari intenzionati a creare una Commissione ad hoc. Ma in un contesto caotico come quello somalo è fuorviante dichiarare “strano” tutto ciò che non collima con l’ordine razionale.
Ragionando così, perfino la Scandinavia farebbe sospettare in certi casi chissà quali depistaggi invece che una semplice inefficienza degli organi di polizia e di sicurezza. Possibile che dopo 30 anni non si siano ancora trovati gli assassini del premier svedese Olaf Palme, freddato il 28 febbraio 1986 all’uscita del cinema in pieno centro di Stoccolma? Possibile che a Oslo il neonazista Anders Breivik il 22 luglio 2011 abbia da solo ucciso 77 persone prima di essere neutralizzato? Sì, è possibile.
ILARIA ALPI ASSURTA TRA LE ICONE
A suo nome è nata una Fondazione, si è istituito un premio televisivo a Riccione, sono stati scritti sei libri e tesi di laurea, prodotti tre film e documentari a non finire. Le sono state dedicate mostre, spettacoli, canzoni, strade, scuole e persino il nome di un fiore: una rosa bianca che si tinge di rosa poco prima di sfiorire. Indimenticabile l’epitaffio lasciato da Indro Montanelli: “Di corrispondenti di guerra io che sono ormai il veterano credo di intendermi: Ilaria lo era”.
Nel 20° anniversario della morte, il 20 marzo 2014, la Camera dei Deputati commemorò ufficialmente i due giornalisti e Rai3 dedicò loro un intero programma in prima serata. Il Maxxi di Roma inaugurò una mostra fotografica di Isabella Ragonese (“Mi richiama talvolta la tua voce”). Rizzoli le rese omaggio con un volumetto (“Ilaria Alpi: La ragazza che voleva raccontare l’inferno”) di Gigliola Alvisi, scrittrice di opere per bambini, e ravvivato da dialoghi immaginari ben costruiti. Ma già il risvolto di copertina lasciava intendere dove puntava: “Quando Ilaria è morta stava indagando su un traffico di rifiuti tossici tra la Somalia e l’Europa”.
L’ultimo libro porta la firma di Serena Dandini: “Il catalogo delle donne valorose” (Mondadori, 2018). E’ una carrellata di 33 biografie femminili: il primo nome è quello di Ilaria, seguita da Ipazia, Grazia Deledda, Josephine Baker, Angela Davis, Miriam Makeba, Jeanne Moreau, Monica Vitti… Forse Ilaria si sentirebbe un po’ a disagio fra loro. L’autrice ripercorre pedissequamente il sentiero battuto per 25 anni: “Ilaria stava seguendo una pista d’inchiesta che portava allo smaltimento di rifiuti e al traffico d’armi. […] Forse non immaginava nemmeno la vastità del vespaio di corruzione che stava scoprendo, o forse sì, ed è proprio per questo che ha continuato coraggiosamente a non cedere alle intimidazioni”. Intimidazioni? Da parte di chi? E l’autrice prosegue: “Qualcuno oggi sa bene chi ha voluto la sua morte e sa anche chi sta continuando a coprire i mandanti. E’ anche per questo che, nonostante tutte le archiviazioni, non possiamo perdere la speranza di scoprire con testardaggine la verità”.
Si è consolidata una base di “certezze” che sfida ogni tentativo di razionalità. La dinamica dell’omicidio è stata trattata unicamente con occhi italiani, tenendo in poco conto il contesto dove è avvenuto. Ilaria e Miran, due inviati di valore, sarebbero i primi a smontare le molteplici speculazioni su quel caso, perché non si sentivano eroi e non vorrebbero essere trattati da eroi. Se oggi si risvegliassero dal sonno eterno, rimarrebbero allibiti nello scoprire quanta fantasia si è scatenata sulle circostanze della loro morte e griderebbero: “Non in nostro nome!”.
Pochi coraggiosi giornalisti si sono distinti come demistificatori. Ascoltiamo Amedeo Ricucci, inviato Rai in Somalia all’epoca del duplice omicidio: “Chissà perché in Italia, quando muore un giornalista, dev’esserci sotto sempre un mistero da scoprire. E’ come se la morte sul lavoro, per noi, non possa essere un evento accidentale, ma debba collegarsi per forza a un mistero da svelare. E passi che a pensarlo siano i parenti, per i quali una morte nobile è meno dolorosa da accettare. Diventano invece insopportabili i teoremi investigativi che fanno da corollario a questa morte, spacciando spesso per verità delle semplici supposizioni, basate non sui fatti ma sull’assunto aprioristico che dietro i fatti c’è sempre qualcos’altro. Vero è che il nostro Paese ci ha abituati alle trame occulte e ai segreti di stato, ma interrogarsi è una cosa e fare congetture un’altra. […] Già al nostro arrivo a Mogadiscio i militari italiani ci avevano avvertito delle voci insistenti su un possibile attacco ad obiettivi italiani, giornalisti compresi, e ci avevano invitati ad alloggiare nel loro compound. […] Ricordo anche che, al telefono con i colleghi che erano stati con me in quel viaggio sfortunato, nessuno avanzò strane congetture sull’accaduto” (“Anche i giornalisti muoiono: le tesi precostituite sull’omicidio di Ilaria e Miran hanno bloccato le inchieste in altre direzioni “da “Africa ExPress”, quotidiano online, del 26 marzo 2014).
La parola a Giovanni Porzio, inviato di “Panorama” e il primo ad accorrere sul luogo del delitto: “Una circostanza sempre sottovalutata è che Ilaria e Miran giravano senza scorta: non lo consentiva il risicato budget di cui disponevano, e a questo proposito qualche domanda al Tg3 andrebbe fatta, nevvero? A quell’epoca le scorte vere (4-5 uomini armati e una “tecnica” con mitragliatrice al seguito) costavano 500 dollari al giorno: il denaro che io e Gabriella Simoni trovammo il 20 marzo nelle camere dell’Hotel Sahafi era appena sufficiente a saldare il conto dell’albergo. Pagammo noi il dovuto all’autista” (“Ilaria e Miran: una irresponsabile distorsione mediatica” (da “Africa ExPress” del 9 aprile 2014 ).
Infine Massimo Alberizzi, inviato del “Corriere della Sera” e amico personale di Ilaria: “Le indagini sull’omicidio di Ilaria e Miran sono segnate da errori, omissioni, pressapochismo cui hanno concorso diversi attori – investigatori, magistrati, commissari delle varie Commissioni d’inchiesta succedutesi nel tempo – compresi alcuni giornalisti che negli anni hanno sostenuto si sia trattato di un’esecuzione. Falso. Io ho visto l’auto su cui viaggiavano Ilaria, Miran e l’autista: era crivellata di proiettili. Si è trattato di un irresponsabile depistaggio per tentare di dimostrare a tutti i costi che l’omicidio dei due giornalisti era il risultato di un complotto” (“La sfilata di testimoni al processo Ilaria e Miran demolisce la tesi del complotto” da “Africa ExPress”, quotidiano online, del 7 aprile 2016).
Un fiume di congetture e di lacune istituzionali ha sommerso il semplice bandolo della verità. Ma allora, dove sta la verità? Sta nella coscienza di Gelle e di Hashi. E sta nella parete del Newseum di Washington, dove i volti dei tanti giornalisti falciati sui fronti di guerra ricordano che laggiù si muore per tragiche casualità. Se dietro l’omicidio di Ilaria e Miran esistessero mandanti e coperture, possibile che in 25 anni d’indagini, processi d’ogni grado, due Commissioni parlamentari d’inchiesta, centinaia di testimoni escussi, fascicoli aperti in varie Procure (e milioni di fondi pubblici spesi), non saltasse fuori qualche prova? O almeno qualche ammissione dal sen fuggita?”. Ironizzava Umberto Eco alla Milanesiana del 2015: “L’esperienza storica ci dice che se c’è un segreto, fosse anche noto a una sola persona, questa persona, magari a letto con l’amante, prima o poi lo rivelerà”. [12]
Senza scomodare Gramsci “La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come dominio e come direzione intellettuale e morale”, scriveva nei “Quaderni dal carcere”), va detto che nel dopoguerra la Sinistra – se non ha conquistato il “dominio” politico – certo ha conquistato la “supremazia intellettuale”. Si deve anche a questa egemonia culturale se il 99% degli italiani è convinto che quell’omicidio nasconda chissà cosa. Ma ora la Sinistra, se vuol rimanere paladina d’illuminismo nell’attuale temperie, deve chiudere questa storia insensata.
Va da sé che chi ha sempre ciecamente creduto a complotti e depistaggi ne resterà convinto, non fosse altro che per abitudine mentale. Ma chi in nome della ragione intende vincere la battaglia contro le fake news e i trolls dovrebbe riconoscere che per un quarto di secolo si sono alimentate fantasie sulla morte di Ilaria e Miran e che è giunto il momento di lasciarli riposare in pace.
Il ragionare non farà mai correggere a una persona un’opinione sbagliata che non ha acquisito ragionando. (Jonathan Swift)
Giuseppe Cassini
già ambasciatore d’Italia a Mogadiscio
(3 – fine)
[8] Ahmed Washington mi riferì, tra l’altro, che Hashi era noto in città per aver partecipato al saccheggio di quanto rimaneva della sede del Comitato Olimpico Somalo; e si diceva anche che avesse sequestrato per denaro una donna del clan Isaaq (che infatti, giunta a Roma, sporgerà denuncia contro di lui a fine gennaio del 1998). Sempre notizie da prendere cum grano salis, comunque.
[9] La relazione respingeva anche la solita accusa di aver erogato somme di denaro all’uno o all’altro (pag. 502): “Alla Corte d’Assise, il 13 maggio 1999, Cassini riferisce che alcuni dicevano che ‘con qualche migliaio di dollari era facile trovare la soluzione’; ma aveva ritenuto questa via poco perseguibile in mancanza [tra l’altro] di un fondo speciale del Ministero”. Quell’accusa è un tormentone costantemente ripetuto dai somali, fa parte di una certa mentalità; ma è assodato che mai è stato scucito un solo dollaro.
[10]A meno di forzare la realtà, come facevano Bush, Cheney e Rumsfeld alla vigilia dell’aggressione contro l’Iraq, quando ribattevano a chi era scettico sulle armi di sterminio in mano a Saddam: “L’assenza di prove non costituisce prova dell’assenza”.
[11]Scriveva Grimaldi il 24/3/2016: “ORA E’ UFFICIALE: ILARIA ALPI FU UCCISA DALLA CIA. IL VERGOGNOSO SILENZIO GENERALE” (www.repubblicaonline.it/2016/03/24). “Repubblica” dedicò al caso intere pagine il 21/3/2014, il 24/5/2014, il 17/2/2015 e infine il 10/4/2015 sotto il titolo “Un traffico d’armi per conto della Cia: l’ultima verità su Ilaria e Miran”.
[12] In Italia esistono due casi tuttora aperti, grazie sopratutto alla lodevole perseveranza delle famiglie: l’abbattimento del DC-9 in volo da Bologna a Palermo il 27 giugno 1980 e l’assassinio di Giulio Regeni al Cairo nel 2016. Del primo caso si sa tutto, ma non si osa additare il Paese colpevole perché è un vicino alleato nella Nato. Dell’assassinio di Giulio si sa praticamente tutto, salvo i nomi degli esecutori.
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