Giuseppe Cassini
Marzo 2019
La prima parte di questa memoria la trovare qui.
AVVERTENZA
Pubblichiamo questo lungo articolo in 3 parti nel 25° anniversario dell’assassinio di Ilaria e Miran per richiamare alle proprie responsabilità un certo giornalismo che ha rincorso senza prove una verità stabilita a priori, senza trovarla. Cercare a tutti i costi il complotto ha depistato le indagini per individuare la verità che andrebbe ricercata anche in altre direzioni.
Africa ExPress
I GENITORI DI ILARIA
Raramente ho incontrato in vita mia due persone più civili e determinate di Giorgio e Luciana Alpi: lui urologo di chiara fama, lei politicamente impegnata (la incrociavo a volte nella sede del PD di via della Farnesina). Abitavamo nello stesso quartiere: fu naturale, in partenza per la Somalia, incontrarli e ascoltare i loro appelli a raccogliere ogni informazione utile a far luce sull’assassinio della figlia. Con l’occasione si lamentarono per la “scarsa assistenza” della Farnesina. Avevano chiesto di ottenere dagli Usa due documenti: una foto satellitare su Mogadiscio del 20 marzo 1994 e il referto stilato dalla compagnia mortuaria americana la sera del delitto, quando i due corpi furono traslati nella cella frigorifera della base Usa (in realtà il referto era un semplice “Body Anatomy Sketching Report”, che fu consegnato la mattina dopo a un ufficiale della nave Garibaldi dove erano stati trasportato i corpi dei due giornalisti). Quanto alla foto satellitare, Washington aveva risposto alternando i “sì” e i “no”: che non esistevano foto, ah sì una foto c’era ma non coincideva con l’ora dell’agguato, e la visuale sulla città era troppo sfocata. Per i genitori era l’ennesima prova che si voleva allontanare la verità sulle circostanze del delitto.
Confesso che in cuor mio condividevo i loro stessi sentimenti. Ma dopo qualche mese in Somalia cominciai a nutrire i primi dubbi. Tornato a Roma rividi i genitori e scrissi una nota per il Ministero: “I genitori Alpi appaiono psicologicamente provati, ma anche determinati a tutti costi a scoprire non tanto gli assassini (che dicono aver già in cuor loro perdonato) quanto i mandanti e il movente”.
“Il dramma nel dramma – continuavo nella nota – è che forse non ci sono mandanti, forse non c’è un movente. Appunto per ciò, qualunque atteggiamento di non piena assistenza alle indagini rinfocola in loro una cultura del sospetto, già alimentata dai mass media e dai membri della Commissione sulla Cooperazione, che stanno inseguendo un’improbabile pista di traffici d’armi. Sarebbe opportuno incanalare in positivo il desiderio di giustizia che li anima offrendo loro anzitutto trasparenza, e poi iniziative come una borsa per studenti somali intestata a Ilaria o una serata di fund raising a favore dell’Associazione delle Donne Somale”.
L’idea di fare qualcosa a nome di Ilaria per l’Associazione delle Donne Somale veniva da Starlin Arush, donna influente e amica sua. Incontrai Starlin la prima volta nel ‘96 a Merca, dove stava realizzando il miracolo di disarmare duecento banditi di strada, fornire loro di che vivere lavorando e fare di Merca una città sicura. Durante il nostro incontro mi rivelò, tra l’altro, di non avere dubbi che il duplice omicidio fosse da attribuire a un tentativo di rapina o di sequestro finito male. Starlin era una donna informata di tutto: subito dopo la tragedia l’autista, sotto choc, era corso da lei a riferirle l’accaduto[4].
Non occorreva una laurea in psicologia per capire lo stato d’animo dei coniugi Alpi. Nella loro mente era scattato un cortocircuito: non bastava trovare la verità, doveva essere quella da loro sperata. A differenza della famiglia Hrovatin, essi non potevano convivere con l’ipotesi che la loro unica figlia fosse morta per un atto di banale criminalità. Da persone politicamente impegnate, si sforzavano di dare alla tragedia un senso nobilitato dai valori cui Ilaria credeva. Il loro dramma traspare vividamente dalla struggente lettera pubblicata da “La Repubblica” il 29 ottobre 1997: “Cara Ilaria, non sappiamo perché ti hanno voluto tacitare in un modo così tragico, ma certamente perché cercavi la verità. Delle tue inchieste è rimasto ben poco. Per essere certi dell’impunità hanno sottratto i tuoi block-notes: non doveva rimanere nessuna traccia. […] Noi non ci uniamo al coro e finché potremo ci batteremo perché ti sia resa giustizia”.
La Farnesina non diede seguito al suggerimento di orientare il loro lutto verso sbocchi costruttivi (anche se non fa parte dei suoi compiti). Tentammo di farlo, mia moglie ed io, in alcuni incontri a casa, ma senza successo: si erano ormai convinti che io stessi “dall’altra parte”. Concludendo la missione in Somalia, il 20 marzo 1998 mi accommiatai da loro con una lettera: “Il polverone di dietrologie sollevato da organi di stampa sta accecando l’opinione pubblica, e soprattutto rischia di scoraggiare altri eventuali testimoni disponibili a venire in Italia a deporre. Ilaria e Miran, due inviati di riconosciuto valore professionale, sarebbero i primi a non apprezzare le molteplici speculazioni sulla loro morte apparse su certa stampa desiderosa solo di vendere”. La risposta non si fece attendere: “Le fummo grati del Suo interessamento, ma pensiamo che la ricerca della verità fosse impegno primario quale rappresentante del governo italiano. […] Il ‘polverone dietrologico’ della stampa sarà forse sbagliato, ma certo è foraggiato dalla scarsa linearità delle autorità inquirenti in questi quattro anni. Buona norma è non far emettere giudizi ai defunti: Ilaria e Miran, se potessero parlare, avrebbero ben altro da dire”.
Ora se ne sono andati entrambi, prima Giorgio e poi Luciana: con la morte nel cuore, prima ancora di morire fisicamente. Ultimamente Luciana appariva provata al punto da perdere ogni speranza (“Ormai sono disillusa, non credo più alla giustizia”). Ma chi aveva alimentato queste speranze? Ai suoi funerali, il 14 giugno 2018, c’era il gotha della Sinistra. La buona fede di Walter Veltroni, Laura Boldrini, Serena Dandini, Federica Sciarelli, Bianca Berlinguer, Andrea Vianello e di altri giornalisti del Tg3 è fuori questione. Ma il necrologio della Rai apparso quel 14 giugno su “Repubblica” la diceva lunga sul rifiuto di arrendersi a una lampante evidenza.
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IL TRAFFICO DI ARMI
Già subito dopo il duplice omicidio si cominciò a parlare di traffico d’armi. Era comprensibile che l’opinione pubblica, poco informata sulle turbolenze del Corno d’Africa, immaginasse chissà cosa – tanto più che il governo italiano, come quello americano e altri, aveva ufficialmente foraggiato di armamenti il regime di Siad Barre, una volta rotta l’alleanza con l’Urss.
A settembre del ’94 Maurizio Torrealta del Tg3 va a Gibuti a intervistare Abdullahi Mussa (il Bogor). Si accenna a tutto – traffico d’armi, droga, pesca, pirateria – e si capisce che parla per sentito dire. Infine Torrealta chiede: “Ha pensato che l’omicidio fosse in relazione al loro viaggio a Bosaso?” Risposta: “No, perché la nostra intervista era semplice, innocua”. Innocua? Il 9 aprile 1995 il Bogor è iscritto nell’albo degli indagati e nel giugno del ‘96 il sostituto procuratore Pititto lo interroga nell’ambasciata italiana a Sanaa. Ecco i passaggi salienti del verbale: “Parlando con Ilaria della Cooperazione italiana ho usato l’espressione ‘un grosso scandalo’ in base a quanto avevo letto sui giornali o sentito alla radio, non perché mi risultasse qualcosa di particolare. […] Tutti i somali dicevano che le navi della Shifco portavano il pesce in Italia e tornavano in Somalia con le armi. Vennero a dirmelo marinai che avevano lavorato sulla Shifco. […] Appresi dell’uccisione dei due giornalisti dalla Bbc. A Mogadiscio era normale che si uccidesse o si sequestrasse. […] Non credo che i mandanti vadano cercati tra i somali. Ho chiesto informazioni a gente venuta da Mogadiscio e ne ho tratto l’opinione che i mandanti siano italiani che erano a Mogadiscio all’epoca, ma ciò non è confermato”. Secondo uno scaricabarile ben collaudato, la colpa ricade immancabilmente su un clan rivale o sugli stranieri (meglio se italiani). Il Bogor – come Omar Mugne, titolare della Shifco – sarà prosciolto da ogni accusa.
Il 3 novembre 1994 s’insediò la Commissione bicamerale sulla Cooperazione, incaricata di indagare su sprechi e mazzette che avevano inquinato progetti finanziati dall’Italia in vari Paesi. Si occupò ovviamente anche della Somalia e del delitto Alpi-Hrovatin. Ma su quel punto scrisse (3 aprile 1996) che dalle testimonianze raccolte non era emerso un solo indizio che collegasse la “mala cooperazione” all’omicidio. Eppure tanti media si affannarono a cavare dal cilindro verità alternative da dare in pasto ai lettori. Tre giornalisti di un settimanale serio quale “Famiglia Cristiana” dedicarono un libro intero – “Ilaria Alpi. Un omicidio al crocevia dei traffici” (ed. Baldini & Castoldi, 2002) – ad avallare la tesi che “il movente che ha portato i killer a sparare” era “il rapporto fra traffico di rifiuti e fornitura di armi” (pag. 147).
Il 4 ottobre 1995 veniva interrogato anche il generale Luca Rajola, responsabile del Sismi per la Somalia: “Per me Ilaria Alpi a Bosaso non aveva ragione di scoprire alcun traffico d’armi, che non avveniva certo in quelle lande deserte. […] Che poi i pescherecci della Shifco, navigando nel Mar Rosso, possano aver trasportato qualche cassa di munizioni comprate nello Yemen, non è da escludere”. Si può obiettare che porre domande su traffici d’armi a un funzionario dei servizi segreti sarebbe come chiedere a una volpe delle informazioni sui pollai. Ma avendo conosciuto bene Rajola, ho potuto apprezzare fino in fondo la sua onestà professionale (e pazienza se questa mia rassicurazione non aiuterà a tranquillizzare chi legge).
Conviene perciò affidarsi all’unico giornalista, Giovanni Porzio, che andò a verificare di persona sulle navi della Shifco invece di contentarsi dei “sentito dire”. Convocato dalla Commissione, il 6 maggio 2004 riferì: “Premetto che nessuno poteva escludere la pista di traffico d’armi sulle navi Shifco. Si basava sulla testimonianza di un marinaio, Mohamed Samatar, imbarcato sul peschereccio ’21 ottobre II’, la nave frigorifera della flotta. Costui sosteneva in un’intervista di aver visto a bordo un carico d’armi nel porto di Tripoli. A quanto mi risulta, era l’unica testimonianza a convalidare l’ipotesi del traffico d’armi. […] Andai a Gibuti a bordo della ’21 ottobre II’. Lì feci una scoperta interessante consultando i libri di bordo. […] Scoprii che la nave fece un solo viaggio in Libia in quegli anni. Siccome era il viaggio incriminato, chiesi al comandante il ruolino dell’equipaggio. Il nome di Samatar non compariva. Il comandante era lo stesso di quel viaggio e gli chiesi se ricordasse quel marinaio. Venne fuori con un documento: mesi prima erano sbarcati a Livorno alcuni marinai fra cui Samatar, e quindi non poteva aver visto nessun carico d’armi. Mi convinsi che quella pista non portava da nessuna parte, anche perché un carico d’armi aveva un valore infimo rispetto al valore della nave. Mugne stesso mi disse che sarebbe stata follia (le acque libiche erano controllate dalla VI flotta americana) superare i controlli con un carico di munizioni e kalashnikov, che al mercato di Mogadiscio si potevano comprare per pochi dollari».[5]
In effetti, trasportare armi era meno redditizio che trasportare aragoste. Il prezzo di un kalashnikov era sceso a 60 dollari e le armi erano dappertutto: all’ospedale Keysaney di Mogadiscio assistevo a un viavai di gente armata che entrava e usciva passando davanti a un’enorme scritta in quattro lingue: (VIETATO ENTRARE CON LE ARMI).
Un giorno di quiete nella capitale chiesi di visitare il suq di Bakara. Stavamo per addentrarci fra le bancarelle quando partì un colpo di fucile; senza perdere un secondo la scorta mi fece risalire in macchina e via di corsa. Era successo che un somalo intenzionato a comprare un nuovo tipo di kalashnikov voleva anche provarlo; il venditore acconsentì e l’acquirente, all’evidenza poco esperto, lasciò partire un colpo che trafisse il venditore.
IL TRAFFICO DI RIFIUTI TOSSCI
Fino agli anni Ottanta molte industrie riversavano nel Terzo Mondo rifiuti tossici che sarebbe stato più oneroso smaltire in patria. Finché nel 1989 fu firmata la Convenzione di Basilea, che vieta l’esportazione di rifiuti nocivi alla salute o all’ambiente verso Paesi in via di sviluppo, a meno di dotarli di tecnologie adeguate per un corretto smaltimento. Non solo, si invitavano i governi a rimpatriare i rifiuti già esportati per smaltirli a casa propria. Il governo italiano fu uno dei più virtuosi: reperì fondi sufficienti a rimpatriare o ritrattare sul posto varie partite di rifiuti tossici. Dal Libano tornarono 10.000 fusti che la Jelly Wax di Milano aveva spedito a Beirut durante la guerra civile. In Turchia furono smaltiti in loco 367 barili metallici spiaggiati sulle coste del Mar Nero. In Romania la Kimica ICE incassava lauti profitti importando rifiuti dall’Europa: si serviva di un porto-franco, Sulina, accessibile solo via mare sul delta del Danubio, dove si poteva scaricare senza eccessivi controlli. Dall’Italia erano sbarcati a Sulina 4000 tonnellate di rifiuti misti, tra cui residui di vernici tossiche. Nel 1991, caduto Ceasescu, venni inviato a verificare sul posto: non trovai più tracce dei rifiuti (pare che molte case fossero riverniciate con quei residui). Ma compulsando i registri navali notai un viavai sospetto: un cargo, ad esempio, era attraccato con un nome e ripartito con altro nome. [6]
Veniamo alla Somalia. Il polverone sollevato sui rifiuti tossici nasce da un’allerta risalente al 1992. Eravamo a Rio de Janeiro per il Vertice della Terra e Mostafa Tolba, l’allora direttore dell’UNEP (l’agenzia Onu per l’ambiente), ci avvertì che una combriccola di somali e italiani progettava di realizzare in Somalia un impianto di ritrattamento da alimentare con “merce” in arrivo dall’Europa. Tornati a Roma scoprimmo l’inghippo: un certo Nur Elmi Osman, sedicente “ministro della Sanità” del governo-fantasma di Ali Mahdi, aveva concordato con la Acher Partners, ditta svizzera associata con una di Livorno (la Progresso s.r.l. di Marcello Giannoni), di costruire in Somalia una discarica polifunzionale da 80 milioni di dollari. Come potessero sperare che un tale progetto sfuggisse alla massiccia presenza di contingenti militari e funzionari dell’Onu, resta un mistero. Il progetto abortì e Tolba dichiarò soddisfatto: «Un contratto tra due società europee per trasportare mezzo milione di tonnellate di rifiuti tossici in Somalia è fallito».
In seguito partecipai ai negoziati che resero più stringenti i controlli sul traffico transfrontaliero. Dunque, arrivando in Somalia nel 1996 fresco di quelle esperienze, feci sapere a destra e a manca che ci saremmo accollati la bonifica. Mi aspettavo che sarebbero fioccate le pretese di somali in cerca di compensazioni e che avrei dovuto chiamare tecnici italiani a verificare. Bene, in due anni nessuno fu in grado di mostrarmi un solo barile, un solo fusto, un solo pallet di rifiuti tossici.
Tuttavia, la panna montata dai media si era espansa fino a diventare “realtà alternativa”. Anzi, c’era chi sosteneva che il business di rifiuti e – perché no? – di scorie nucleari fosse collegato a quello di armi, in un intreccio degno di Le Carré. Nel 1999 lo darà per scontato anche il libro, quasi un best seller, firmato dall’inviato del Tg3 Torrealta con l’on. Gritta Grainer e i coniugi Alpi (“L’esecuzione”, ed. Kaos): “Il traffico di scorie nucleari e tossiche è un commercio legato al traffico d’armi. Le fazioni in lotta per pagarsi le armi cedono zone desertiche a società che fanno traffico illegale di scorie tossiche (spesso nucleari), le quali acquistano queste discariche vendendo armi e guadagnando quindi due volte. Spesso l’interramento dei bidoni velenosi viene occultato con lavori di movimento-terra” (pag. 118).
Era solo l’inizio. Nel 2003 uscì un film commovente (“Ilaria Alpi: Il più crudele dei giorni”) con Giovanna Mezzogiorno nella parte di Ilaria. Siccome il film doveva anche vendere, in una ripresa si vede l’auto del regista percorrere la strada Bosaso-Garoe, costruita dal consorzio SACES (Astaldi-Cogefar-Edilter), e si sente una voce spiegare che sotto quel nastro d’asfalto sono interrati i famosi rifiuti, radioattivi inclusi. Ma perché non fermarsi un attimo, prendere una piccola scavatrice e un contatore geiger, mettersi a scavare in qualche punto indicato (dietro compenso) da somali che avevano lavorato sul cantiere e finalmente mostrare al mondo di quali nefandezze era stato capace il consorzio SACES? Quello sarebbe stato uno scoop![7]
La Commissione parlamentare non prese sotto gamba la questione. Indagò a tutto campo e ne chiese conto, il 6 e 7 settembre 2005, allo stesso Ali Mahdi, che “governava” la regione interessata ad eventuali discariche. Ecco la sua reazione: “Non so come si possano dire certe cose in un Paese civile come l’Italia […]. Se qualcuno sa dove sono i rifiuti, sono pronto a portarlo lì e a tirarli fuori. I somali sanno tutto: hanno fiuto e l’avrebbero visto, se si fosse messo questo materiale sotto le strade”. La relazione conclusiva sarà netta (pag. 377): “Tutte le indagini effettuate non hanno trovato alcun riscontro certo sull’esistenza di rifiuti tossici in Somalia, tanto meno di traffici. E’ dunque da escludere una conoscenza di tali attività illecite da parte dei due giornalisti uccisi. […] Parimenti sono state effettuate numerose indagini sull’esportazione di rifiuti dall’Italia alla Somalia, senza giungere ad alcun risultato”.
Eppure, il martellamento mediatico non si è mai placato. Un articolo a sensazione di Riccardo Bocca su “l’Espresso” del 24 giugno 2010 (“Porto nucleare”) pubblicava cinque foto di un porticciolo in costruzione a El Maan, a nord di Mogadiscio. Lo stava realizzando Giancarlo Marocchino in alternativa al porto della capitale bloccato dalla guerra. Le foto – definite “inequivocabili e sconcertanti» – mostravano dei container zavorrati per creare un molo e una piccola diga foranea; stando all’articolo, erano «pieni di rifiuti tossici”.
Le foto – si precisava – risalivano al luglio 1997, ossia al periodo in cui io stesso andai a vedere i lavori di quella encomiabile opera fai-da-te e inserii qualche fotografia in un rapporto al Ministero. Quei container apparivano zavorrati con normale pietrisco e terriccio… O forse non ci eravamo accorti – né io né la Farnesina – di aver assistito a uno scempio ecologico.
E’ possibile, invece, che qualcosa proveniente dall’Asia si sia spiaggiato sulle coste somale in conseguenza dello tsunami del dicembre 2004, anche se una missione tecnica inviata dall’Onu nell’ottobre 2005 non trovò nulla. Peraltro, due grandi “fusti” spiaggiati a El Dur, poco a sud di Obbio, sono stati filmati nel 2013 da Paul Moreira nel documentario “Toxic Somalia. Sulla pista di Ilaria Alpi”: filmati, ma mai aperti. Forse erano boe d’alto mare disancorate. Di nuovo aria fritta. Si fingeva di ignorare che una “nave dei veleni” risparmia milioni se, salpando dall’Italia, scarica la propria “merce” nella fossa del Tirreno (profonda 3800 m.) o dello Ionio (profonda 5000 m.) – come infatti pare sia accaduto – invece di affrontare una lunga traversata e rischiare severi controlli al passaggio di Suez.
Giuseppe Cassini
già ambasciatore d’Italia in Somalia
[4] Impressionante il numero di donne trucidate mentre erano al servizio di un’umanità somala sofferente: Maria Cristina Lunetti, infermiera (+ 9/12/1993); Graziella Fumagalli, medico (+ 22/10/1995); Verena Karrer, ostetrica (+ 23/2/2002); la stessa Starlin Arush (+ 24/10/2002); Annalena Tonelli, educatrice in via di santità (+ 5/10/2003). Di Annalena, che conobbi all’ospedale da lei creato a Borama sulle montagne del Somaliland, là dove sarà uccisa, mi resta il ricordo dei suoi occhi chiari, dolcissimi, e di un’amara confessione: “In questo baratro di male chi ha fede rischia di perderla”.
[5] Porzio riferì anche di averne informato i coniugi Alpi: “Manifestai loro l’intenzione di recarmi a Gibuti dove sostava la flotta Shifco per fare un’indagine, ed essi ebbero una reazione che mi lasciò perplesso: mi dissero che non potevo andare a trovare questo assassino, l’ingegner Mugne”.
[6]Arrivare nel 1991 a Sulina d’inverno era un’impresa. Grazie a un valido collega dell’ambasciata italiana, Paolo Trabalza, trovammo a Tulcea, l’ultima città raggiungibile in auto, una barca e un pilota in grado di addentrarsi fra i meandri del delta senza arenarsi o smarrirsi nella foschia. Scene da “Cuore di tenebra”… (Questo inciso solo per chiarire che un diplomatico non sempre frequenta cocktail in feluca).
[7] Alla strada Bosaso-Garoe si riferisce anche “La strada di Ilaria”, un libro del 2014 di Francesco Cavalli, cofondatore a Riccione del Premio Alpi. “Sono molti gli indizi che lasciano immaginare siano stati uccisi su preciso mandato, perché avevano scoperto un traffico di rifiuti tossici dall’Italia alla Somalia, nascosti sotto l’asfalto della strada Garoe-Bosaso. Tuttavia di indizi si tratta e dunque insufficienti a costituire una certezza”. Per avere la “certezza” bastava scavare, come avrebbe fatto un reporter di scuola anglosassone (ma anche qualche italiano, ndr)
(2 – continua)
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