Speciale per Senza Bavaglio
Alessio Iocchi
Napoli, 4 marzo 2019
La tormentata tornata elettorale di febbraio 2019 in Nigeria sembra essere terminata con la vittoria, incontrovertibile numeri alla mano, del presidente uscente Muhammadu Buhari, seppur non al netto delle contestazioni – da prassi – da parte dell’oppositore sconfitto, Atiku Abubakar.
Il fermento iniziato quasi un anno fa con la serie di defezioni importanti in seno al partito di governo All Progressive’s Congress (APC), aveva però già fornito indicazioni sul fatto che, quelle del 2019, sarebbero state elezioni fortemente combattute, ravvivando la fresca memoria degli eventi partitici preparatori delle elezioni 2015. Il fervore pre-elettorale della scorsa tornata, in cui svariati esponenti dell’allora partito di governo People’s Democratic Party (PDP) avevano cambiato casacca in favore dello sfidante APC, aveva poi condotto alla vittoria di quest’ultimo: sulla carta Atiku, con l’adeguato supporto di altri grandi ‘godfathers’ regionali del PDP, avrebbe potuto ridisegnare la mappa del potere nella Federazione.
Invece così non è stato. Se nel 2015 Buhari aveva avuto la meglio in 21 dei 36 Stati della Federazione, quest’anno si è portato avanti in 19, perdendo quattro constituencies importanti ma guadagnandone, insperatamente, due. Se lo Stato nord-orientale di Adamawa si poteva pronosticare come perso (Atiku è originario di lì e nel 1998 ne è stato eletto governatore), per Buhari le perdite nel sud-ovest di Ondo e Oyo, dove invece nel 2015 aveva riportato larghi margini, segnalano uno scricchiolio nell’alleanza tra l’élite politica del nord e quella del sud-ovest. La quale, comunque, non sembra drammatica, compensata dal buon margine ad Ekiti (sud-est) e la corsa sul filo di lana a Nasarawa (centro-nord).
Atiku, già vice-presidente durante l’amministrazione Obasanjo (PDP, 1999-2007), era emerso come il candidato ideale del PDP nella competizione con Buhari, soprattutto per via della sua abbondante disponibilità finanziaria (il PDP prevede il versamento di $33,000 per presentare la propria nomination) e del suo curriculum da businessman di successo. Tuttavia le sue reali speranze di potere sfidare il carisma e l’immagine di fustigatore dei corrotti di Buhari erano in realtà scarse.
Durante il mandato, carisma e immagine pubblica di Buhari erano stati inevitabilmente appannati dalle sue precarie condizioni di salute e dallo scarso rispetto della logica dello ‘zoning’, o rotazione regionale nelle funzioni pubbliche, tanto da fargli guadagnare l’epiteto di ‘Baba Go Slow’. Più di ogni altra cosa la riduzione dei tassi di crescita economica, direttamente correlata al crollo del prezzo del petrolio al barile, aveva portato milioni di cittadini e sostenitori all’esasperazione. Da questa debolezza ha tentato di trarre giovamento Atiku, ma alle urne la sua proposta di rinascita economica è stata evidentemente bocciata.
Con l’inizio del secondo mandato, le sfide che Buhari si trova a fronteggiare sono cospicue. Malgrado il decisivo passo in avanti compiuto con l’introduzione del Treasury Single Account (TSA) per la gestione delle entrate pubbliche, la lotta alla corruzione, che è stato accusato di guidare con poca aggressività, ha finora avuto un limitato successo. Il tema della sicurezza domina il dibattito pubblico nigeriano con frequenza e l’impegno di Buhari è stato costantemente frustrato dall’insostenibilità della strategia repressiva, da lui ardentemente difesa, contro la guerriglia dei gruppi della galassia “Boko Haram”.
Gli alti tassi di disaffezione generati nei ranghi dell’esercito sono il risultato di anni di miopia tattica, sotto-equipaggiamento militare e paranoia. Elementi questi che hanno generato quel clima da caccia alle streghe che, lo scorso dicembre, ha portato l’esercito nigeriano a bandire l’UNICEF dai teatri d’operazione nel nord-est di Borno con l’accusa di infiltrazioni di “Boko Haram”.
Allo stesso modo, il drammatico aumento delle violenze inter-comunitarie nella fertile zona del Plateau nigeriano, semplificato come conflitto fra pastori e agricoltori, non è che da addebitarsi alla mancanza di volontà politica nell’affrontare il dossier. Buhari richiama alla calma ma fallisce nell’implementare una strategia politica chiara volta, in primo luogo, a far affondare le speculazioni opportuniste di chi sovrappone al conflitto la patina fuorviante dell’etnicità e della religione e, in secondo luogo, ad indurre al compromesso le diversificate componenti dei cicli di violenze e ritorsioni.
In conclusione, la serietà, il carisma e il piglio di ferro di Buhari serviranno tutti per consentire al riconfermato presidente di affrontare le ambiziose questioni che rendono la Federazione un gigante dai piedi di argilla ma, soprattutto, per non far dissipare l’enorme volume di fiducia dei cittadini nigeriani per la politica come strumento di avanzamento sociale.
Alessio Iocchi
alesiocchi@gmail.com
Dottore di ricerca in Africanistica
Università di Napoli “L’Orientale”