Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 17 febbraio 2019
“Il governo del Sud Sudan tratterrà un giorno di stipendio nella busta paga dei dipendenti pubblici per quattro mesi nell’interesse della pace”. Lo ha annunciato all’inizio della settimana il ministro dell’Informazione, Michael Makuei e ha anche lanciato un appello agli impiegati del settore privato, agli imprenditori, alla società civile tutta, di aprire il borsellino per contribuire a questa causa.
Juba deve assolutamente trovare i soldi necessari per garantire l’applicazione del processo di pace. La comunità internazionale ha promesso contributi, ma ha chiesto al governo sudsudanese di dimostrare il proprio impegno, iniziando a finanziare l’unificazione dell’esercito e il relativo addestramento. Inoltre i governi donatori hanno preteso una contabilità trasparente dei proventi del petrolio e misure volte ad arginare la corruzione.
All’inizio del mese il Gruppo di monitoraggio per cessate il fuoco (CTSAMVM) aveva fatto sapere che le risorse messe a disposizione per la propria attività erano insufficienti e ha invitato il governo a porre rimedio quanto prima.
Dal canto suo Salva Kiir, presidente del Paese dall’indipendenza, ottenuta dal Sudan nel 2011, ha criticato gli Stati Uniti per aver espresso riserve e scetticismo nei confronti del rilancio del processo di pace. Questa loro posizione – secondo Kiir – potrebbe influenzare anche gli altri governi occidentali.
E mentre il governo di Juba piange miseria per portare avanti il processo di pace, tra dicembre e gennaio il National Pre-Transitional Committee (NPTC) – gruppo incaricato della supervisione della prima fase del trattato di pace e della gestione del budget – ha messo a disposizione oltre centotrentacinquemila dollari per rinnovare le case di due politici. Si tratta delle abitazioni del primo vice-presidente Taban Deng Gai e di Rebecca Nyandeng De Mabior, che dovrebbe diventare uno dei cinque vice-presidenti, secondo il nuovo trattato di pace.
La signora è la vedova di John Garang de Mabior, guerrigliero, poi fondatore e leader dell’Esercito di Liberazione del Popolo di Sudan (SPLA), in seguito, dopo l’accordo di pace (Comprehensive Peace Agreement), siglato alla fine del 2004, divenne primo vice-presidente del governo di Omar al-Bashir per poche settimane nel luglio 2005. Morì in un incidente aereo mentre tornava da un incontro segreto con Yoweri Museveni, presidente dell’Uganda, suo amico e vecchio alleato. Sia il governo di Khartoum che SPLA dichiararono che si fosse trattato di una disgrazia, dovuta al cattivo tempo, ma c’è chi ha messo in dubbio questa versione.
Per far fronte alle spese per il trattato di pace, il governo aveva promesso di mettere a disposizione 1,4 milioni di dollari. Finora sarebbero stati depositati solamente quattrocentomila dollari. Lo ha rivelato Henry Odwar, vice-presidente del NPTC al Guadian, quotidiano britannico. Odwar ha precisato di aver espresso dubbi sulla transazione, ma sarebbe stato messo in minoranza da membri del governo.
Martin Elia Lomuro, ministro per gli Affari di Gabinetto, ha sostenuto che i soldi sono stati spesi come previsto dal trattato di pace. “Bisogna investire nelle case per le persone che stanno arrivando per governare il Paese”, ha sottolineato il ministro.
D’altronde il governo sud sudanese è conosciuto per essere spendaccione. La scorsa estate Juba ha messo a disposizione ben quarantamila euro a ciascun parlamentare per l’acquisto di nuove autovetture. Una somma considerevole, che supera abbondantemente i dieci milioni di dollari, in un Paese dove le strade nemmeno esistono.
La popolazione è allo stremo. Per molti la pace è ancora un sogno. In un rapporto di pochi giorni fa dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (UNHCHR) e della Missione dell’ONU nel Sud Sudan (UNMISS) è stato confermato che ben centotrentaquattro donne hanno subito violenze sessuali da parte di militari delle forze armate governative e i loro alleati nella Unity region. Altre quarantuno giovani donne sono state soggette a maltrattamenti fisici e molestie. Una di loro è stata addirittura ammazzata brutalmente.
Le violenze si sono consumate tra settembre e novembre del 2018. Tutte le vittime appartengono all’etnia nuer e i fatti sono venuti alla luce grazie a denunce dell’organizzazione Medici senza Frontiere e altre ONG. Naturalmente le autorità locali e il governo di Juba hanno negato e fatto sapere che le accuse sarebbero senza fondamenta. Anche il comitato d’inchiesta autorizzato da Kiir, non ha individuato i responsabili.
Il conflitto è cominciato quando il presidente Salva Kiir Mayardit, di etnia dinka, ha accusato il suo vice Riek Marchar, un nuer, di aver complottato contro di lui, tentando un colpo di Stato. Sono così cominciati i combattimenti tra le forze governative e quelle degli insorti fedeli a Machar. I primi scontri si sono verificati il 15 dicembre 2013 nelle strade di Juba, la capitale del Paese, ma ben presto hanno raggiunto anche Bor e Bentiu. Vecchi rancori politici ed etnici mai risolti, non fanno che alimentare questo conflitto.
Dal 2013 ad oggi sono morte decine di migliaia di persone, oltre tre milioni hanno dovuto lasciare le loro case e i loro villaggi. Attualmente oltre il settanta per cento della popolazione necessita di assistenza umanitaria. Il conflitto ha portato con sé abusi dei diritti umani su larga scala nei confronti dei civili. A farne le spese sono sopratutto donne e bambini. Violenze e abusi sessuali, reclutamento di bimbi soldato, distruzione di ospedali, scuole, razzie delle scorte alimentari sono all’ordine del giorno. E secondo un rapporto di Famine Early Warning Systems Network alcune migliaia di persone sono esposte allo spettro della carestia.
In questi anni di guerra sono stati barbaramente ammazzati anche 101 operatori umanitari, altri sono stati sequestrati e molte donne sono state stuprate, tra loro anche un’italiana, che con molto coraggio ha reso testimonianza durante il processo a carico di una dozzina di militari dell’esercito sud sudanese.
Alla fine di agosto è stato firmato l’ennesimo tratto di pace tra le parti in questione. Eppure la popolazione continua a morire, a soffrire la fame, a scappare dalle proprie case. Durante recenti scontri tra le forze armate governative e membri del National Salvation Front (NAS) nel Yei River State, hanno perso la vita tredici civili – tra loro anche donne, bambini, anziani – e sette militari. Oltre tredicimila persone sono fuggite: cinquemila hanno cercato protezione nella vicina Repubblica Democratica del Congo, mentre altri ottomila nella città di Yei.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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