Speciale per Africa ExPress
Cristiana Fiamingo
Milano, 26 gennaio 2019
Grazie, vicepresidente Di Maio, davvero! Ieri nel mio studio, qui in Statale, dopo il gentile invito da Massimo Alberizzi a scrivere un “pezzo” sul tema di questa polemica, si è seduta di fronte a me Carine, studentessa camerunese della nostra Scuola di Mediazione linguistica, chiedendomi di poter approfondire, nella preparazione del suo esame in Storia e istituzioni dell’Africa, proprio la questione del Franco CFA – Franc de la Comunauté français d’Afrique –. Nemmeno molti africani dei Paesi interessati sanno esattamente di che si tratti. E colleghi mi scrivono: “Almeno se ne parla dopo 60 anni”.
Certo, come e perché lo si faccia ha il suo rilievo, però e che sui social a spizzichi e bocconi in ragione di queste “boutade” circoli un po’ di storia, è positivo. Lo è meno che la gente la scopra da adulta, sebbene funzionale ad una esclusiva e datata centralità europea a conferma di quanto male siano organizzati i programmi scolastici. Insomma, la crociata che ha lanciato contro la politica estera francese (e non contro la Francia, come lei stesso è stato costretto a precisare il 22 gennaio, dal Blog del Movimento), attaccando la “tassa coloniale” del Franco CFA, come ogni questione quotidianamente sollevata da questo Governo, induce a correggere, a fare precisazioni, a specificare e a scendere nei dettagli: “el me mestè”, insomma, che consiste anche nello stimolare gli studenti a farne un sistema di pensiero.
Confondere una “tassa” con una moneta che, certo, è garanzia di un sistema di cambio che risale a de Gaulle – introdotto nel ‘45 e quindi sottoscritto dagli Stati africani prossimi all’indipendenza, che avevano acconsentito per referendum ad entrare a far parte della Comunità franco-africana nel 1958 (per inciso, col sogno di accedere al costituendo mercato comune europeo a fianco della Francia) -, dimostra di per sé una scarsa cognizione di causa oltre all’ennesima forma di irrispettosa irresponsabilità nel riprodurre non solo informazioni errate, ma percezioni distorte nella cittadinanza italiana.
Questa, non omogeneamente conscia delle dinamiche politiche ed economiche dei Paesi dell’emisfero sud e particolarmente prona ad atteggiamenti quantomeno paternalistici, se non marcatamente razzisti nei confronti dell’Africa e dei suoi abitanti, deve essere guidata con coscienza a recuperare un rapporto di conoscenza con il continente africano, bruscamente interrotto dalla fine del dominio coloniale e rimasto appannaggio di studi specialistici o di qualche appassionato cultore: una ratio interrupta, che non ha evidentemente risparmiato le posizioni apicali del nostro Governo.
L’improvvido attacco è tema di una serie di comunicazioni del Movimento che originano dal 2014, ma che si rifà, nel suo intendimento attuale, a quella che viene spacciata per la carta delle rivendicazioni dei “gilet jaune”: affatto rappresentativa del movimento populista francese, come ha precisato uno dei suoi principali portavoce, Eric Drouet. In Italia, invece, grazie al M5S, che vi si parametra sovente, dalla posizione privilegiata di partito di Governo, si offre al documento una legittimità impropria.
Molti economisti han tentato di far luce su tutti gli aspetti pro e contro e le implicazioni del fenomeno del Franco CFA, anche in Italia: in particolare Massimo Amato, docente in Bocconi, è citato a sproposito in questo frangente. Amato ne ha evidenziate nelle sue pubblicazioni ben altre criticità, che non il prosieguo di un rapporto coloniale.
Fuori dall’accademia e all’estero, tanto nella diaspora che in Africa, il dibattito si protrae ad ondate sin dalla istituzione di quel sistema di cambio, con particolare intensità dall’infelice momento della drammatica scelta della Francia di svalutare quella moneta, nel ’94, ma che dall’introduzione dell’euro ha visto ridursi i costi della pratica di conversione della moneta, in sede di transazione commerciale, sebbene sia certo condizionante il dover passare per il Tesoro francese per ogni commessa. Comunque, è davvero ora di smetterla di trattare gli Stati africani come se fossero sotto eterno regime di curatela da parte dell’Occidente, anche e soprattutto poi, nel manipolare l’attenzione della popolazione agitando il dito contro le politiche altrui senza mettere a nudo le proprie e senza dire chiaramente che si tratta di una vis polemica innescata dall’esclusione dal trattato di Aquisgrana fra Germania e Francia.
Ripararsi dallo shock del regime di cambio ad oggi è parso un vantaggio alle leadership africane e comunque in dirittura di mutamento. Anche in ragione della condivisione della Comunità economica regionale dell’Africa occidentale (ECOWAS) di una serie di Paesi nati da regimi coloniali diversi e che ne hanno ereditato macro-sistemi di diritto diversi altresì, si sta pervenendo ad una moneta unica volta a completare un’opera di armonizzazione del diritto commerciale fra gli stati membri, che garantisca la libera circolazione di beni e persone.
Il “colonialismo” non lo si riproduce attraverso una politica monetaria cui i beneficiari possono sottrarsi, ma lo si riproduce attraverso uno sfruttamento economico anarchico quale quello che tante imprese francesi e italiane, per non dire di tanti altri Stati, europei e non, partner commerciali di molti regimi africani, continuano a perpetrare, silenti e inattivi i rispettivi Governi, se non garanti dei quanto mai generici BIT (accordi economici internazionali bilaterali). Nei BIT sta di tutto: anche vaste operazioni italiane di land-grabbing, per intenderci, o imprese italiane che annichiliscono le cooperative contadine africane (veda la questione della produzione deipelati in Ghana), con coinvolgimenti bancari nell’attivare fondi di investimento che finanziano le pensioni integrative.
Sembrava averlo intuito la ex-Ministro degli Esteri Emma Bonino quando, nel 2013, in occasione della celebrazione del cinquantenario della OUA (Organizzazione dell’Unità Africana) espresse il desiderio che si andasse a far business in Africa “con lo Stato”: mi illusi allora che lo Stato italiano avesse imparato almeno qualcosa dalla tragedia di Ilaria Alpi, che ha contribuito a depistare col concorso di commissioni inconcludenti, quantomeno assumendosi la responsabilità di controllo sugli interessi economici dei suoi cittadini e denunciando i limiti della propria politica estera.
Ebbene, praticamente all’indomani lo stesso Ministro avviò una campagna di riduzione delle nostre sedi diplomatiche in Africa. Ed ecco che ieri, dal “Governo del cambiamento”, il Presidente della 3ª Commissione Affari Esteri del Senato della Repubblica, Vito Rosario Petrocelli, dal Blog del M5S, forza opportunamente la storia e attribuisce superficialmente alla regia francese reazioni violente determinate dalla complesse questioni in cui la moneta CFA ha davvero poco a che fare. Per il caso di Olympio, dribbla completamente la questione degli eserciti nati nel colonialismo, per esempio: la classe militare, organizzata e finanziata, reagiva alla decisione delle prime leadership africane di ridurne portata e stipendi, a fronte delle pesanti difficoltà economiche; o sorvolando sulle delicate questioni confinarie che coinvolgevano il Togo; o, per il caso Gheddafi, bypassando il fatto che, in parallelo al rilancio ed alla trasformazione dell’OUA in Unione Africana (UA), fortemente voluti e ottenuti dal colonnello libico, era nata la NEPAD (New Economic Partnership for African Development) su ispirazione del sudafricano Mbeki, il cui fine ultimo era quello di creare un mercato africano da mettere in relazione con il mercato globale, proprio per evitare che i singoli Paesi continuassero ad essere alla mercé del business occidentale: il mercato e la moneta unica africana di cui parla oggi il Presidente di turno della UA, Kagame, nacque dall’intuizione d’allora: pensa Petrocelli che ciò indurrà Macron alla “terminazione” di Kagame?
Nessuno vuol certo negare pesanti interventi militari e di intelligence da parte dei diversi Governi europei in Africa, né certo di quelli francesi sui territori dell’Africa francofona e non, né gli effetti devastanti della competizione fra Francia e Stati Uniti nel continente africano dall’ultima fase della guerra fredda, ma oggi non è forse la competizione fra Total ed Eni, giocata in Libia, uno dei fattori di tensione, accanto ad un «Africa compact» all’europea, ostinatamente giocato sul falso problema delle migrazioni intercontinentali dall’Africa a creare un ennesimo ostacolo che rallenta il controllo dell’area da parte di un vero governo di unità nazionale e che dà, invece, a fazioni corrotte lo strumento di ricatto da giocare per restare a galla? Ma a cosa servono queste recriminazioni? Dov’è lo strutturato progetto di una rinnovata politica estera europea e italiana?
Questa polemica sul Franco CFA non può non riportare alla memoria il sogno di un leader africano illuminato: Léopold Sédar Senghor che propugnava l’Eurafrique. È un’occasione che abbiamo perso molte, troppe volte; anche di recente, con gli EPA (Economic Partnership Agreement); o al vertice di Abidjan – V Summit dei capi di stato e di governo tra Europa e Africa, del novembre 2016: un completo fallimento del “nuovo inizio” nelle relazioni tra i due continenti. Anziché concentrarsi sui temi proposti dai leader africani: lavoro e occupazione in un continente la cui popolazione per il 60% ha meno di 25 anni,in primis, nella post-work era in cui tutti ci dibattiamo, com’era prevedibile, il discorso è stato ancora una volta monopolizzato dall’agenda migratoria. Così come il G20 di Amburgo (luglio 2017), in cui si è discusso d’Africa senza l’Africa. Mentre, sulla scorta di false emergenze costruite per attrarre consenso interno e distrarre da un quadro generale sconfortante, si tratta con regimi impresentabili, sostenendoli finanziariamente e legittimandoli.
L’accordo di Cotonou tra Europa e Paesi ACP (d’Africa, Caraibi e Pacifico: 48 dei quali africani) siglato nel 2000 scadrà nel febbraio 2020 e i lavori a livello UE per costruire le basi del futuro partenariato son già avviati. L’Italia si presenterà agitando recriminazioni sul passato coloniale (in cui anche noi abbiam fatto del nostro peggio), o con buone idee nei settori prioritari tra: democrazia e diritti umani, crescita economica e investimenti, cambiamenti climatici, eliminazione della povertà, pace e sicurezza, migrazione e mobilità, come elenca il sito dedicato? L’Italia andrà lì, con una sua vision,perché no, anche su come gestire la mobilità? O propugnerà il suo grigio isolamento, incurante del futuro dei propri giovani?
Rapporti regolamentati – si badi bene, non iper-burocratizzati – di circolazione delle conoscenze, delle idee, degli expertise necessari ad una mutua crescita, tanto economica che di consapevolezza politica, con regole draconiane e vincolanti nell’individuazione e annichilimento di pratiche economiche meno che etiche e trasparenti, farebbero della partnership eurafricana un potenziale economico e strategico senza eguali. L’assecondare – non il determinare – i bisogni di popoli che hanno una loro storia, al di là di quella determinata dai colonialismi e che chiedono solo di essere mutuamente legittimati nel rispetto delle loro culture, e non etichettati come “altro”; contemperare quei bisogni coi nostri e la nostra economia in spaventoso declino porterebbe tra l’altro ad un riequilibrio demografico, che solo il benessere comporterebbe in quest’emisfero, fugando ogni paura.
Il progetto del diritto ad una vita sostenibile per tutti, su una Terra le cui crisi climatiche ci dimostrano come mal ci sopporti, implica un sistematico abbattimento dei muri e non il trinceramento di privilegi temporanei ed effimeri, per favorire piuttosto la ricognizione comune di comportamenti vincenti.
Cristiana Fiamingo
Docente di Storia e Istituzioni dell’Africa e di History and Politics of sub-Saharan Africa dell’Università degli Studi di Milano