Angelo Turco
Milano, 24 gennaio 2019
L’abbiamo sentita questa frase e in questi giorni rimbomba forte fra la testa e il cuore: “Meglio morire annegati che far ritorno in Libia”. La piega che stanno prendendo le traversate in Mediterraneo, con la tragedia di venerdì scorso al largo delle coste libiche, impone un deciso cambio di passo nell’analisi della migrazione verso l’Europa e delle politiche che ne conseguono. Di là dalle lacrime di coccodrillo; di là dalle invettive, che non portano da nessuna parte; di là dalle retoriche seriali della compunzione e dello scaricabarile.
Quella frase non è solo lo sfogo di un disperato. Semplice e potente, essa ci dice che lo status giuridico, e quindi civile e politico, dei migranti che prendono oggi il mare esponendosi in pieno inverno a un rischio altissimo di naufragio, cambia. Chi sono, infatti, i migranti dei barconi che affondano sotto i nostri occhi? Migranti economici, come si dice con brutta espressione? E cioè gente che tenta il tutto per tutto, nell’ennesimo assalto alla “fortezza Europa”? Ecco il punto.
Quelle persone forse erano “migranti economici” quando sono partiti dalle loro case, quando hanno lasciato i loro Paesi. Ma oggi si tratta di persone che fuggono da un pericolo imminente e grave: addirittura un pericolo di vita.
L’esperienza libica, brutale e senza respiro, ha trasformato radicalmente il profilo di quelli che sono forse giunti in quel Paese come migranti economici. Ne ha fatto dei profughi a tutti gli effetti. I migranti rimangono intrappolati nell’inferno in cui sono andati a cacciarsi: dove sono sfruttati, maltrattati, stuprati, derubati, picchiati, incarcerati.
E ciò per il solo fatto di essere migranti: esseri umani in mobilità. Da questa situazione, che non solo è discriminatoria – ciò che già basterebbe per il diritto internazionale che disciplina l’asilo – ma è letteralmente persecutoria, i migranti tentano di uscire con tutte le loro forze. In ogni modo e con ogni mezzo. E però, indietro non possono tornare. Non hanno più risorse per riattraversare il deserto all’incontrario: né finanziarie, né fisiche, né psicologiche.
I loro Paesi d’origine, quando non sono ostili, li ignorano: puramente e semplicemente, pur nascondendosi dietro discorsi (parole, parole) che sono un miscuglio scomposto di compassione e di indignazione. Dal loro canto, le organizzazioni internazionali come l’OIM fanno quello che possono per i rimpatri, ma ciò è insufficiente. Così, se vogliono tutelare la loro integrità fisica, se vogliono salvare la vita, i migranti devono lasciare la Libia prendendo la via del mare.
E ciò non solo, non tanto, non più per “invadere” l’Europa, ma per uscire da situazioni insostenibili di violenza e di sofferenza. Quando si mettono in mare, i migranti provenienti dalla Libia sono profughi, con diritti garantiti dagli accordi di Ginevra.
E a questi profughi non si può dire, come pretende di fare “ il poliziotto buono” del Governo, ossia il Presidente del Consiglio: ti prendo in mare, ti salvo dall’annegamento, ma poi ti riconsegno ai tuoi carnefici, cioè alla mitologica “guardia costiera libica”, cioè al carcere duro e senza garanzie dal quale stai fuggendo. Non si può.
Angelo Turco
angelo.turco@iulm.it
Angelo Turco è docente di Geografia Umana all’Università IULM
e curatore (con Laye Camara) del libro “Immaginari migratori”
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