Kampala/Cagliari, 18 gennaio 2019
I Paesi più poveri spesso non negano l’accoglienza a migranti e rifugiati. Tra loro anche l’Uganda, che, secondo gli ultimi dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) al 31 dicembre 2018 ospitava 1.190.922 milioni di rifugiati.
Al primo posto troviamo persone in fuga provenienti dal Sud Sudan – settecentottantanove mila – scappati da un sanguinoso conflitto interno scoppiato nel dicembre del 2013 e ancora in corso. Attualmente gli sfollati sono 1,97 milioni di persone, mentre ben 2.256.499 sud sudanesi hanno cercato protezione nei Paesi confinanti, tra questi appunto l’Uganda.
Riek Machar Teny Dhurgon, di etnia nuer, ex vice presidente del più giovane stato della Terra – ha ottenuto l’indipendenza dal Sudan solamente nel 2011 – e oggi capo dei ribelli, e Salva Kiir Mayardit, di origine dinka, hanno firmato diversi trattati di pace dal 2013, l’ultimo nell’agosto 2018, ma la pace è sempre rimasta tale solo sulla carta. In realtà si continua a combattere e a farne le spese è la popolazione civile.
I disperati, insieme ai loro figli, arrivano per lo più in Uganda a piedi, dopo giorni e giorni di marcia in zone pericolose e inospitali. Giungono nel nuovo Paese quasi sempre denutriti e ammalati, feriti nell’anima e nel corpo e spesso donne e ragazze hanno dovuto subire violenze di ogni genere. Qui, una volta registrati, trovano cibo e un pezzetto di terra da coltivare, per iniziare una nuova vita.
Sempre al 31 dicembre 2018, l’ex colonia britannica ospitava anche trecentododicimila rifugiati scappati dalla Repubblica Democratica del Congo, Paese infestato da bande armate. Fuggiti da scontri etnici e violenze indescrivibili. In maggioranza si tratta di donne e bambini, distrutti da traumi e violenze (non solo sessuali), ma che hanno trovato la forza di lasciare tutto, alla ricerca di un luogo dove ricominciare.
Il presidente Yoweri Kaguta Museveni, al potere in Uganda dal 1986, ha coniugato sapientemente l’accoglienza ai rifugiati con lo sviluppo del Paese, ha saputo trasformare l’arrivo massiccio di persone in cerca di protezione in una ricchezza.
Qui il rifugiato riceve, secondo accordi con i clan locali e il governo, un pezzo di terra per poterlo coltivare e costruirsi una casetta. Volendo, possono anche cercare lavoro e muoversi liberamente nel Paese. In cambio, il trenta per cento degli aiuti internazionali destinati ai territori dove si trovano i campi profughi, per legge, deve essere destinato alle popolazioni locali. In questo modo anche gli abitanti delle zone povere dei distretti del nord possono godere di maggiori benefici, come servizi sanitari, scuole, acqua. Si è creato così una sorta di equilibrio nella convivenza tra residenti e profughi a benficio di tutti, almeno per ora.
Il settantacinquenne Museveni detiene il potere con pugno di ferro. Due anni fa il Parlamento di Kampala ha abolito la legge che poneva il limite di età a settantacinque anni del candidato alla presidenza del Paese. E già nel 2005 era riuscito a far apportare delle modifiche alla Costituzione: allora era stato rimosso il limite di due mandati presidenziali.
Per parecchio tempo Museveni aveva giustificato la sua lunga permanenza al potere citando gli spettri del passato, come la lunga guerra civile che ha insanguinato il settentrione del Paese, dove il famigerato gruppo ribelle Lord’s Resistance Army, capeggiato da Joseph Kony ha seminato terrore tra la popolazione civile. Ma i giovani non ricordano, desiderano il cambiamento, ecco come si spiega il grande successo Robert Kyagulanyi, meglio conosciuto come Bobi Wine, un ex cantante, oggi parlamentare e uno dei maggiori oppositori dell’attuale presidente.
Africa ExPress
@africexp
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