Franco Nofori
Torino, 17 gennaio 2019
L’ennesimo attentato che ha insanguinato martedì scorso la capitale del Kenya, riporta drammaticamente alla ribalta, l’opportunità per l’ex colonia britannica di mantenere una forza militare in Somalia per contrastare i fondamentalisti islamici di al Shebab. A dieci anni di distanza dall’intervento deciso dall’Unione Africana, con la costituzione della forza multinazionale AMISOM, di cui il Kenya fa parte, i risultati ottenuti contro i guerriglieri somali, vicini ad Al Qaeda, sono molto vicini allo zero. Per contro il Kenya ha pagato, e paga, per questa presenza, un altissimo tributo in vite umane, sia in terra somala, sia nel proprio territorio. Ma non solo: la paura di attentati tiene lontani dal Paese i suoi potenziali visitatori.
Ne vale la pena? Sembra proprio di no, anche perché al Shebab, si è mostrato capace di colpire, non solo nelle zone vicine al confine tra Kenya e Somalia, ma anche in ogni altra parte del Paese, dove, molto probabilmente, può contare su una rete locale di supporto, che la nutrita presenza di cittadini musulmani rende difficile identificare e quindi neutralizzare.
Il Kenya, poi, non può vantare un efficiente apparato d’intelligence che gli consenta di svolgere azioni preventive dirette a sventare le azioni terroristiche al momento della loro progettazione. Fino ad oggi, contro i miliziani di al Shebab, in territorio somalo, i bombardamenti americani si sono rivelati molto più efficaci delle azioni militari lanciate dall’AMISOM.
Nell’attentato di martedì all’hotel di Westland, le autorità keniane, almeno in questa circostanza, hanno rinunciato alla puerile presunzione di poter fare da sole. Nel 2013, durante l’assalto al centro commerciale Westgate, durato quattro giorni, avevano rifiutato il supporto offerto da forze speciali straniere. Martedì, invece, le forze dell’ordine locali sono state affiancate da teste di cuoio americane e britanniche.
Tuttavia, i bilanci, ufficiali e non, anche in questo caso, sono apparsi contraddittori e inaffidabili. “Sei vittime”, ha dichiarato la polizia (poi elevate a 21); “47 morti”, ha annunciato la rivendicazione di al Shebab; “Oltre sessanta”, hanno sostenuto fonti giornalistiche. Probabilmente dati certi su quest’ultima tragedia, non si otterranno mai.
Intanto, in una specie di ritualità che si ripete ogni volta, si levano gli scudi degli operatori turistici, soprattutto della regione costiera che vedono le proprie attività messe a rischio da un’esagerata reazione di panico. “Le spiagge sono molto lontane da Nairobi – spiegano –. Chi viene da noi non corre pericoli”. Il rischio di attentati che viene percepito in Europa è decisamente sovrastimato e questo non tanto perché i terroristi non possano colpire anche obiettivi sulla costa, quanto perché il rischio che si corre in Kenya, è simile a quello che incombe quotidianamente sulle città occidentali.
Un pericolo sicuramente maggiore di quello terroristico, in Kenya, è rappresentato, invece, dalla criminalità comune. E’ maggiore per la frequenza degli eventi, per la loro spietatezza e (soprattutto) per la loro imprevedibilità. Si tratta di pericoli cui molto raramente sono soggetti i turisti, ma ne sono vittime preferenziali, quegli europei che, attratti dal fascino dell’Africa, vi si stabiliscono – in forma stabile o saltuaria – vivono in una casa propria e assumono personale locale in cui ripongono totale fiducia. Non è infatti raro il caso in cui dipendenti domestici, pur se impiegati da dieci e più anni, possano improvvisamente trasformarsi in spietati assassini, solo per accedere ai beni dei loro datori di lavoro.
E’ comprensibile che l’Africa, per il suo splendido paesaggio, per la mitezza del clima e per lo stimolante scenario dei suoi aspri contrasti, possa risultare irresistibile per chi vive assediato dal cemento e dallo smog delle città europee, ma l’Africa è anche terra di forti disparità sociali, di povertà estreme, di bisogni essenziali insoddisfatti ed è fatale che tutti i convenzionali valori delle società civili, qui risultino travolti dalla necessità alla sopravvivenza, una necessità che, quando diventi impellente, può sfociare in azioni in cui pietà e considerazioni umane, non trovano più spazio. Nonostante questo e a patto che si rispettino le elementari regole del buon senso, è molto più facile perdere la vita nel quartiere Scampia di Napoli che in Kenya.
Franco Nofori
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