Franco Nofori
Torino, 30 dicembre 2018
La Repubblica Centrafricana è grande due volte l’Italia, ma con una popolazione di poco più di cinque milioni di abitanti, che la rendono una nazione scarsamente abitata (meno di sei abitanti per Km quadro). Eppure è un Paese che fin dal 1960, all’ottenuta indipendenza dalla Francia, ha conosciuto solo violenze, morti e devastazioni. Vi operano più di dieci gruppi armati, in permanente lotta con tutti (anche tra loro) e pronti a cambiare bandiera a ogni mutare di vento. Molti di loro combattono e uccidono, quasi senza sapere il perché, in un’irresistibile orgia di violenza che pare ormai connaturata nell’essenza stessa del loro essere.
Tolta la capitale Bangui, che ha una parvenza di organizzazione statuale, nel resto del Paese regna la totale anarchia. Non c’è un sistema sanitario nazionale, né vie di comunicazione affidabili. Le sparute forze di sicurezza, stentano a garantire un’efficace protezione allo stesso governo, mentre l’esercito, ridotto a una forza meramente rappresentativa, non sarebbe in grado neppure di proteggere se stesso, se non fosse per la presenza delle truppe ONU che, tuttavia, riescono solo a salvaguardare una ristretta zona intorno alla capitale nel sud-ovest del Paese.
Afflitta da una povertà che è tra le peggiori del mondo, i centrafricani vivono con poco più di un dollaro al giorno e sono vittime delle continue scorrerie che devastano le loro misere colture agricole. Non è d’aiuto l’instabilità delle Nazioni confinanti: Ciad, Sudan, Sudan del Sud, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica del Congo e Camerun.
La storia della Repubblica Centrafricana, nei suoi quasi sessant’anni d’indipendenza, è costellata da regimi militari, colpi di stato e rovesciamenti di fronte, fino all’avvento, grazie alle elezioni democratiche del 2015, dell’attuale presidente Faustin-Archange Touadéra, al quale va dato atto di aver tentato una riconciliazione nazionale che, purtroppo stenta ad avere successo.
Il Centrafrica, per lo più ignorato dal mondo, ha avuto il suo momento di popolarità nel 1966 quando, grazie a uno dei molti colpi di Stato, s’installò al potere Jean-Bedel Bokassa, un dittatore affetto da megalomania e con tratti ritenuti gravemente psicotici che, nel 1976 lo spinsero ad auto-proclamarsi imperatore, con la pretesa che l’allora Papa Paolo VI venisse personalmente a incoronarlo a Bangui, richiesta che fu ovviamente disattesa. Alla cerimonia, tanto pacchiana quanto costosa, parteciparono solo pochissimi leader stranieri e i venti milioni di dollari spesi per celebrare l’evento, gettarono definitivamente nel lastrico la già pericolante economia del nuovo Impero del Centrafrica.
All’ambasciatore britannico che, per conto di Elisabetta II, declinava l’invito alla cerimonia dell’incoronazione, Bokassa rispose: “Non importa, lei è una semplice regina, mentre io sono un imperatore”. La sua spiccata attitudine alla ferocia, lo faceva regolarmente partecipare alle pratiche di tortura e da più parti si sostenne anche che, al pari del suo collega ugandese Idi Amin, amava cibarsi del corpo dei nemici uccisi.
Molte critiche piovvero sul governo francese di Valéry Giscard d’Estaing che, malgrado le note tendenze paranoiche dell’alleato centrafricano, lo sostenne fedelmente finanziandolo e rifornendolo di armi in cambio di uranio. Il presidente francese, fu anche al centro di uno scandalo quando si scoprì che aveva ricevuto dall’amico Bokassa corposi regali personali in diamanti.
Oggi, la Repubblica Centrafricana è ancora lontana dall’aver creato una situazione di serenità e di pace, ma se mancano le strutture istituzionali per favorire la riconciliazione tra le varie e bellicose comunità interne, c’è un organismo non governativo che si adopera al meglio per tentare di realizzarle. Si tratta del corpo dei Boy Scout che in Centrafrica conta oltre ventimila membri (più delle forze militari presenti nel Paese). Sono giovani molto attivi e motivati, cattolici, evangelici e anche islamici.
“Siamo guerrieri di pace”, dicono di se stessi e girano di città in città, di villaggio in villaggio, esortando i concittadini ad abbandonare le ostilità e a unirsi in uno sforzo comune per dare pace e stabilità al proprio Paese. In Centrafrica non ci sono strade trafficate e vecchiette che debbano essere aiutate ad attraversarle, ma l’obiettivo dei giovani boy scout locali non è certamente meno nobile.
Franco Nofori
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