Franco Nofori
Torino, 10 dicembre 2018
L’irresistibile propensione dei leader africani a lasciarsi corrompere, questa volta pare abbia colpito anche il dittatore Yoweri Museveni che domina l’Uganda, quale incontrastato leader, fin dal 1986. Questo, almeno, è quanto risulta al Dipartimento di Giustizia americano che sta procedendo nei confronti di un rappresentante della potente impresa petrolifera cinese China Energy Fund Committee (CEFC) la quale, stando alle dichiarazioni, rilasciate lunedì scorso, dal procuratore statunitense Paul Hayden, avrebbe corrotto il presidente ugandese con una bustarella di 500 mila dollari, al fine di assicurarsi lucrosi appalti da svolgere nell’ex colonia britannica.
Il mediatore dell’affare, sarebbe stato identificato in Chi Ping Patrick Ho, un cittadino di Hong Kong che per conto dell’impresa cinese, avrebbe fisicamente consegnato due anni fa a Museveni una busta che conteneva la somma in questione. Sempre Chi Ping – evidentemente specializzato in questo genere di operazioni – avrebbe fatto lo stesso in favore del presidente del Chad, Idriss Deby, ma con una busta ben più pesante di due milioni di dollari.
Corrompendo il leader ugandese, l’impresa cinese non si assicurava solo lo sfruttamento petrolifero, ma otteneva anche importanti concessioni nelle opere infrastrutturali, nel sistema bancario e nell’industria del turismo. Le trattative del malaffare sarebbero state condotte, sempre secondo il procuratore americano, tra il mandatario della CEFC, Chi Ping e due interlocutori ugandesi: il presidente Museveni e il suo ministro degli esteri Sam Kutesa, pervenendo a un accordo che assegnava all’impresa cinese la proprietà dell’Uganda Crane Bank e l’assegnazione, a scopo turistico, di un parco nazionale nei pressi del lago Vittoria. I proventi ultra milionari del tutto, sarebbero andati a favore di una joint venture creata tra la CEFC e i familiari di Museveni e di Kutesa.
Grazie ad accurate investigazioni dell’FBI, la procura americana avrebbe in mano prove incontestabili a sostegno delle proprie accuse: messaggi email, lettere e registrazioni vocali, oltre a testimonianze oculari di agenti FBI e di ex dipendenti del presunto corruttore Chi Ping. Pare che i fatti siano divenuti noti grazie alla reazione del presidente ciadiano che ricevuto un pacco regalo da Chi Ping, lo trovava pieno di banconote. L’aperto tentativo di corromperlo lo faceva infuriare, ma l’astuto mediatore gli inviava subito una lettera di scuse, sostenendo che – per una mera dimenticanza – il suo ufficio aveva omesso di inserire nel pacco una nota nella quale si precisava che la somma inviatagli era destinata a opere di carità di sua scelta.
Gli accertamenti svolti dall’FBI, hanno anche appurato che Chi Ping Patrick Ho, è il fondatore di una NGO affiliata alle Nazioni Unite, con dichiarati scopi umanitari. Affiliazione che riusciva ad ottenere nel 2014, quando il suo sodale ugandese, Sam Kutesa, aveva ricoperto per un anno, la carica di presidente pro-tempore dell’Assemblea Generale ONU. Grazie a quest’accordo criminale, risultò facile all’eclettico cinese, fare “donazioni” che altro non erano se non opere di corruzione. Evidentemente sia Kutesa, sia Museveni, nel ricevere il denaro, non si erano sentiti oltraggiati come il loro collega ciadiano.
Il procedimento, che si tiene presso la corte federale di Manhattan, presieduta dal giudice distrettuale Loretta Preska a carico dei tre imputati; Chi Ping, Museveni e Kutesa, si presume si concluderà entro tre settimane. Ovviamente il faccendiere cinese si dichiara innocente e tramite il suo avvocato americano Ben Rosemberg, afferma che “non si è trattato di corruzione, perché a fronte delle donazioni non vi è stata alcuna contropartita”, affermazione contestata dall’accusa che, forte di quanto emerso dalle investigazioni, si dice certa di poter provare che ogni centesimo erogato da Chi Ping, era finalizzato a ottenere appalti e assegnazioni a favore della sua rappresentata di Shangai; la China Energy Fund Committee.
Comunque finisca il procedimento giudiziario in essere, l’amara conclusione su questa ennesima malversazione africana, è che il costante tentativo di combattere la corruzione nel continente più povero del pianeta equivale al futile sforzo di far scorrere l’acqua di un fiume al contrario, verso la propria sorgente.
Franco Nofori
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