Franco Nofori
Mombasa, 15 novembre 2018
Così afferma l’ultimo rapporto dell’ICPC (International Centre for Police and Conflict), un organismo indipendente creato a Nairobi nel 2005, che si occupa di monitorare le attività delle forze di sicurezza in quanto a trasparenza e legalità. Secondo quanto rilevato dall’ICPC, i poliziotti del Kenya agirebbero sistematicamente al di fuori della legalità arrogandosi la libertà di uccidere chiunque, a proprio giudizio, grazie alla tacita concessione dell’impunità che, nei fatti, viene loro garantita.
Nel suo rapporto l’ICPC, non lesina pesanti accuse alle autorità di polizia e agli organi governativi che dovrebbero controllarne l’operato. “Gli agenti di polizia – si legge nel testo – si sostituiscono all’autorità giudiziaria e uccidono a proprio giudizio, senza un procedimento che attesti la responsabilità delle loro vittime. Possono farlo perché sono certi dell’impunità ed è solo in rari casi che si apre un procedimento contro di loro, quando le loro azioni vengono filmate da altri cittadini, ma anche in quelle circostanze, le condanne inflitte, hanno raramente seguito nella realtà”.
L’accusa si estende ai vertici del corpo, fino a coinvolgere lo stesso ispettore generale Joseph Boinnet, che – sempre secondo l’ICPC – avrebbe ripristinato “la stessa insindacabile brutalità concessa agli agenti del vecchio organico della Special Branch”. Ciò significa che le forze di polizia non si curano neppure di redigere rapporti, quando i loro interventi si concludono con l’uccisione di qualcuno e solo quando i media ne chiedono conto, la risposta è invariabilmente la stessa: “I nostri agenti sono stati attaccati e hanno risposto al fuoco”.
Il rapporto dell’ICPC è lungo e a tratti anche un po’ retorico perché indugia oltre il necessario su aspetti etici e moraleggianti che la chiara illegittimità degli eventi denunciati, rendeva già di per sé sufficientemente superflui. Tuttavia, a sostegno delle gravi accuse avanzate, l’ICPC non si cura di fornire nessun esempio fattuale, né riferisce specifici eventi su cui abbia raccolto prove necessarie ad avvalorarli. Del resto che la polizia del Kenya abbia, a livello internazionale, una fama piuttosto discutibile, è confermato anche da WISPI (World Internal Security and Police Index) che la qualifica come “la terza polizia peggiore del mondo”.
Benché manchi di specificità, non si può comunque sostenere che le accuse dell’ICPC siano infondate, se non altro perché anch’io, che ne scrivo, posso darne una diretta testimonianza. Era una soleggiata e tarda mattinata del 2018 e il fatto che sto per riferire è avvenuto proprio nell’area di parcheggio davanti a quella che era allora la mia sede di lavoro. All’interno, oltre a me, c’era un’altra decina di persone. Ciò che tutti vedemmo attraverso le ampie vetrate della reception, prospicente al parcheggio, ci lasciò inorriditi ed esterrefatti. L’edificio in questione si affacciava sulla superstrada Mombasa-Malindi ed era situato a un paio di chilometri oltre il ponte di Nyali.
All’improvviso, due auto senza alcun contrassegno, entrarono ad alta velocità nel parcheggio e si fermarono stridendo. Ne scesero alcuni uomini in abiti borghesi (non ricordo esattamente quanti) uno dei quali spinse la porta a vetri ed entrò nella reception dove si qualificò come un agente di polizia. Disse che era in corso una loro operazione e che dovevamo tenere la porta chiusa restando all’interno senza interferire a protezione della nostra incolumità. In quel momento, mi trovavo nel mio ufficio al piano superiore e fui invitato a scendere dalla ragazza addetta alla reception.
Appena sceso vidi che gli uomini estraevano alcune armi automatiche dai bauli delle loro auto, mentre uno di loro parlava concitatamente a una radio portatile. Dopo qualche minuto, i poliziotti si portarono sul bordo strada con le armi in pugno e presero a osservare con attenzione le numerose auto in transito, finché ne fermarono una da cui fecero scendere quattro uomini che, sotto la minaccia delle armi, furono fatti stendere a terra nel parcheggio, l’uno accanto all’altro a faccia in giù. Intanto alcuni altri agenti perquisirono l’auto su cui i quattro erano arrivati, all’interno della quale furono trovate due pistole.
Da quel momento tutto parve svolgersi in un’atmosfera surreale. Senza alcuna domanda agli arrestati e dopo un breve parlottio con i colleghi, uno degli agenti imbracciò il mitra, si portò alle spalle degli uomini a terra e senza esitazioni li falciò con ripetute sventagliate uccidendoli sul colpo. Nell’assistere a quella scena, una mia anziana collaboratrice, una gentile e simpatica signora svizzera, perse i sensi e si riuscì a sostenerla in tempo prima che cadesse a terra. Tutto il personale, sia bianco, sia africano, aveva assistito al massacro, così come vi avevano assistito altre decine di persone all’esterno, insieme agli automobilisti di passaggio.
Dopo una ventina di minuti, arrivò un pick-up della polizia. I cadaveri dei quattro vi furono caricati e tutti se ne andarono, lasciando noi sgomenti e increduli di aver davvero assistito a quanto descritto. Quasi certamente i quattro uccisi erano malviventi, ma non avevano opposto alcuna resistenza all’arresto, obbedendo docilmente all’ordine di sdraiarsi a terra. Perché ucciderli così barbaramente, anziché seguire l’iter giudiziario previsto? Ma l’aspetto più inquietante di quel raccapricciante episodio, fu la sfrontata arroganza della polizia che, in pieno giorno, pur davanti dozzine di testimoni, si sentì così onnipotente e intoccabile da poter compiere una strage davanti a tutti, certa di non doverne pagare le conseguenze.
L’accaduto fu ripotato il giorno successivo dai quotidiani locali che, pur se con espressioni leggermente diverse, lo titolarono così: “Quattro criminali uccisi a Khadija (Contea di Mombasa ndr) in uno scontro a fuoco con la polizia”.
Franco Nofori
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