Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 9 novembre 2018
“Se tutti avessimo parlato di più di questo orribile, sanguinario conflitto, forse quasi la metà della popolazione della Repubblica Centrafricana, non si troverebbe ora in piena crisi alimentare”. Con queste parole pochi giorni fa le Nazioni Unite, in un rapporto basato su uno studio dello scorso settembre, hanno denunciato che 1,9 dei 4,5 milioni di abitanti della ex colonia francese necessitano di aiuti alimentari con la massima urgenza. E sottolinea: “E’ la peggiore crisi dal 2014”.
Hervé Verhoosel, portavoce del Programma Alimentare Mondiale, ha fatto sapere che le condizioni nutrizionali continuano a peggiorare a causa della persistente insicurezza nel Paese. Dall’inizio del mese una nuova ondata di violenze ha investito diverse zone: Batangafo, nel nord, Bambari, al centro e Zémio nel sud-est, costringendo migliaia di persone a lasciare le loro case.
Il sessanta per cento dei seicentoquarantamila sfollati interni vive attualmente presso parenti e familiari e la situazione, già grave, continua a deteriorasi con implicazioni dirette sull’insicurezza alimentare.
“Il dramma umanitario è inaccettabile”, ha sostenuto il rappresentante speciale aggiunto del Segretario generale dell’ONU nella Repubblica Centrafricana, coordinatore residente e coordinatore umanitario, Najat Rochdi.
A Batangafo, nelle prefettura di Ouham, trentamila persone hanno perso tutti i loro poveri averi dopo saccheggi e violenze, scoppiate il 31 ottobre tra miliziani anti balaka (gruppi armati che comprendono per lo più cristiani) e ex Séléka (vi aderiscono principalmente musulmani) appartenenti al Front Populaire pour la Renaissance de la Centrafrique (FPRC) e Union pour la Paix en Centrafrique (UPC). All’inizio di ottobre FPRC, UPC e MPC (acronimo per Mouvement Patriotique pour la Centrafrique) hanno deciso di ritirarsi dal trattato di pace, firmato dai maggiori gruppi armati, su iniziativa della Russia, il 28 agosto 2018 a Khartoum, la capitale del Sudan.
Gli scontri a Batangafo hanno distrutto oltre cinquemila abitazioni. La gente ha cercato rifugio all’ospedale, all’orfanatrofio, nelle zone periferiche e nei boschi. MINUSCA, la Missione dell’ONU nel Paese, ha inviato subito rinforzi per proteggere la popolazione civile e per supportare le Organizzazione non governative nella distribuzione di cibo e medicinali.
Anche a Zemio la situazione resta a tutt’oggi molto instabile dopo i diversi attacchi del 2 novembre, durante i quali hanno perso la vita diversi civili, molti altri sono stati feriti e come spesso accade, gran parte delle abitazioni dei residenti sono stati incendiati.
A Bambari il contesto generale è teso e preoccupante dopo i recenti combattimenti tra diversi gruppi armati. Il PAM ha dovuto interrompere le sue attività e una sospensione prolungata potrebbe causare gravi danni alla popolazione e ai settantamila rifugiati che attualmente si trovano a Bria, che necessitano urgenti aiuti alimentari.
Durante la sua recente visita a Bangui, la capitale del Centrafrica, Jean-Yves Le Drian, ministro degli Esteri francese, ha promesso nuovi aiuti al governo: ben ventiquattro milioni di euro e armi. Come potranno importare armamenti visto che il 30 gennaio scorso, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha rinnovato all’unanimità fino al 31 gennaio 2019 l’embargo sulle armi, è un mistero? Dunque tutti gli Stati membri dovranno impedire tutte le vendite di armi. La risoluzione è estesa anche all’assistenza tecnica e all’addestramenti oltre naturalmente agli aiuti finanziari in relazione ad attività militari. La Francia chiederà certamente un’autorizzazione speciale all’ONU, permesso già accordato alla Russia qualche mese fa, grazie ad una parziale abolizione dell’embargo.
Parigi vuole rimettere le mani sulla sua ex colonia, ormai in balia ai russi, sbarcati nel Paese dall’inizio dell’anno. E’ chiaro che la Francia non gradisce l’intrusione a tutto campo di Putin e dei suoi uomini, molto apprezzati, invece, dalle autorità di Bangui, nonchè da buona parte della popolazione.
Le Drian ha sottolineato che l’operazione francese sarà trasparente, nel rispetto delle disposizioni dell’ONU. Oltre al sostegno militare, gli aiuti finanziari ammonteranno a ventiquattro milioni di euro che, oltre al pagamento dei salari arretrati dei funzionari governativi, permetterà investimenti in infrastrutture e aiuti agli sfollati e rifugiati centrafricani Camerun.
La crisi dell’ex colonia francese comincia alla fine del 2012: il presidente François Bozizé dopo essere stato minacciato dai ribelli Séléka alle porte di Bangui, chiede aiuto all’ONU e alla Francia. Nel marzo 2013 Michel Djotodia, prende il potere, diventando così il primo presidente di fede islamica del Paese. Dall’ottobre dello stesso anno i combattimenti tra gli anti-balaka e gli ex-Séléka si intensificano e lo Stato non è più in grado di garantire l’ordine pubblico. Francia e ONU temono che la guerra civile possa trasformarsi in genocidio. Il 10 gennaio 2014 Djotodia presenta le dimissioni e il giorno seguente parte per l’esilio in Benin. Il 23 gennaio 2014 viene nominata presidente del governo di transizione Catherine Samba-Panza, ex-sindaco di Bangui.
Dall’era François Bozizé il Paese ha visto alternarsi ben quattro presidenti: Michel Djotodia, Alexandre-Ferdinand N’Guende, Catherine Samba-Panza e infine Faustin-Archange Touadéra, eletto nel marzo 2016.
Il 15 settembre 2014 arrivano anche i caschi blu dell’ONU della MINUSCA. Le forze dell’Unione Africana del contingente MINUSCA è presente attualmente con 13.625 uomini in divisa, oltre allo staff civile forte di 1.162 uomini (tra volontari ONU, personale internazionali e locale).
Il 31 ottobre 2016 la Francia ritira ufficialmente le sue truppe dell’operazione Sangaris, che si è protratta per ben tre anni.
Ma c’è chi ha trasformato le sofferenze e le violenze subite in fatti positivi come un centinaio di donne, che attualmente si trovano nel campo per rifugiati a Gado-Badzéré in Camerun, ad appena ventotto chilometri dalla frontiera con il Centrafrica. Le profughe si sono inventate un lavoro e producono carbone ecologico da rifiuti vegetali dei campi, come resti di mais, manioca e bokassa essiccati. A Gado-Badzéré vivono attualmente oltre venticinquemila centrafricani e per cucinare e riscaldarsi molti di loro si vedevano costretti a cercare la legna nelle vicine foreste.
Oggi bisogna percorrere oltre tre chilometri per procurarsi il legname, perchè gli alberi dei boschi nelle vicinanze del campo sono già stati abbattuti, senza rispettare la regolamentazione sul disboscamento. Tutto ciò ha avuto un impatto negativo sull’ambiente e non solo: il lungo tragitto potrebbe mettere in pericolo la vita delle donne, che rischiano di essere violentate e rapite.
Oggi le profughe producono oltre trecento chilogrammi di carbone ogni settimana, che viene rivenduto direttamente agli altri ospiti del campo. Questo progetto è partito nel 2015 dietro iniziativa dell’UNHCR in collaborazione con la ONG Lutheran World Federation.
Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes
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