Franco Nofori
Mombasa, 27 ottobre 2018
Alla notizia che la Corte Penale Internazionale dell’Aja potrebbe incriminarlo per crimini contro l’umanità, il presidente del Sud Sudan Salva Kiir Mayardit ha risposto con un: “Non ho paura”.
Tracotanza, ingenuità o sincera convinzione d’innocenza? Certo è che a fronte di quasi 400 mila morti, provocati dalle lotte intestine in Sud Sudan, la proclamazione d’innocenza del suo presidente, Salva Kiir, appare quantomeno grottesca. E’ lui, infatti, che regge le sorti del Paese fin dall’ottenuta indipendenza dalla dominazione araba sancita nel 2011 in forza di un referendum popolare che lo ha installato al potere ed è tristemente comune, in Africa, che tale potere si configuri spesso in un delirio di onnipotenza, nell’ambito del quale tutto è consentito in ossequio al più assoluto principio machiavellico.
Ma chi è Salva Kiir e qual è stato il percorso che, con un così vasto consenso, l’ha portato alla leadership del giovane e sventurato Paese africano? Della sua infanzia non si sa molto, salvo che nacque nel 1951 a Bahr al-Ghazal, un corposo villaggio dell’allora Sudan meridionale che prende il nome dall’omonimo fiume che l’attraversa. Myardit Salva Kiir appartiene alla maggioritaria etnia dinka e già alla fine degli anni ’60, prima ancora che compisse il suo ventesimo anno, aderì al movimento indipendentista Anya-Nya che compiva azioni di guerriglia contro il potere di Khartoum. Militando in queste formazioni, Salva Kiir, appena ventunenne, ottenne il grado di ufficiale nell’Esercito di Liberazione del Sudan meridionale.
Autodefinitosi un cattolico devoto, con l’immancabile cappello da cowboy e una dialettica appena elementare, Salva Kiir non ci mise molto a far capire al mondo che le sue doti militari non si riflettevano per nulla in quelle richieste dalla posizione politica che andava ad assumere quando la volontà popolare lo pose alla presidenza del più giovane Paese del continente africano. Al suo fianco, come vice presidente, Kiir scelse il quasi coetaneo Riek Machar Teny che, giacché appartenente all’etnia nuer (seconda nel Paese dopo quella dinka) sembrava poter garantire una pacifica gestione del potere, unendo due tribù tradizionalmente rivali.
Non sono ben chiare le ragioni per cui quest’alleanza cessò bruscamente solo due anni dopo essersi formata. Secondo alcuni osservatori – Salva Kiir, il cui livello d’istruzione è meno che modesto – soffriva la supremazia culturale di Machar, laureato in ingegneria all’università di Khartoum e titolare di un dottorato in filosofia conseguito all’università di Bradford in Gran Bretagna. Qualunque fosse la ragione del dissidio, sta di fatto che Kiir accusò Machar di tradimento nei suoi confronti, accusa che costrinse il suo vice a fuggire per rifugiarsi all’interno della propria etnia, la quale, rispolverata l’antica ostilità verso i dominatori dinka, brandì le armi dando vita al cruento confronto che si protrae ormai da cinque anni.
Le indicibili crudeltà commesse da entrambi gli schieramenti nei confronti dell’inerme popolazione civile, solo a causa delle rispettive appartenenze etniche, hanno creato profondo raccapriccio nel mondo civile e occorre dire che, pur se nessuno dei contendenti merita assoluzioni per questi massacri, le truppe governative, fedeli a Kiir, per numero di soldati e di mezzi bellici, sono certamente quelle che più riescono a distinguersi nella spietata macellazione dei loro simili. Situazione, questa, che ha spinto molte organizzazioni umanitarie a sollecitare il Tribunale Criminale Internazionale (ICC) dell’Aja, a procedere sia contro Salva Kiir, sia contro il suo rivale Riek Macahr per il reato di genocidio etnico.
Come abbiamo però visto, il leader sud sudanese, si mostra in proposito più che tranquillo. Rilasciando un’intervista a Jeff Koinange della TV keniana Citizen, Kiir ha affermato: “L’ICC può procedere nei miei confronti quando vuole. Io non ho nulla da temere poiché lavoro esclusivamente per la pace e sono del tutto innocente rispetto a queste accuse”. Pressato dal giornalista a proposito di alcune operazioni di riciclaggio di denaro sporco, di cui sarebbero accusati alcuni alti funzionari del suo governo, Kiir ha risposto: “Sì, devo ammettere che ci siano state, ma in questo momento non posso occuparmene perché tutti i miei sforzi sono diretti ad assicurare una stabile pace per il mio Paese e posso assicurare che arriveremo prestissimo a questo traguardo”. Ma intanto i massacri non si arrestano e la gente continua a fuggire dalle proprie case, perché l’alternativa è la morte.
Franco Nofori
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