Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Milano, 17 ottobre 2018
Già , ma poi quali italiane? Matteo Salvini intende quelle puro sangue, o anche quelle che hanno ottenuto la cittadinanza in questa generazione?
Ad esempio, una come Paola Ogechi Egonu, 19 anni, schiacciatrice e opposto, stella della pallavolo italiana, figlia di papà Ambi e mamma Sunday, entrambi nigeriani, ragioniera e aspirante avvocato, divenuta cittadina italiana a 14 anni. Ma forse Matteo Salvini si riferiva a italiane bianche nate da Roma in giù anche con i capelli neri e ricci.
Oppure una come Miriam Sylla, 23 anni, altra stella del nostro Volley, nata a Palermo come Mario Balotelli con papà e mamma della Costa d’Avorio, sbarcati in Sicilia e poi trasferitisi nel Lecchese, in Lombardia.
Oppure l’attuale ministro degli Interni, con un sapiente sottinteso, voleva alludere a Sylvia Chinelo Nwakalor, schiacciatrice ventenne dalle origini nigeriane, dal sorriso smagliante e – lei sì – dalle lunghe treccine nere. Non come la più congeniale e più vicina alla razza celtica, Sarah Fahr, diciottenne di origine tedesca, pure lei in Giappone con la maglia azzurra (ma con i capelli biondi)? E lasciamo da parte Ofelia Malinov, 22 anni, figlia dell’allenatore bulgaro Atanas Malinov e della ex pallavolista Kamelia Arsenova…
Nell’estate 1995, Candidò Cannavo, storico direttore della Gazzetta dello Sport e gran signore, scriveva parlando della saltatrice Fiona May: “Il nero della sua pelle, poi, ci ha sollevato da una mortificazione: era tempo che un Paese moderno come il nostro si allineasse alle nazioni più evolute, anche sportivamente, della società multirazziale”. Per la verità 23 anni dopo siamo ancora qui a respingere intolleranze e paure immotivate e gonfiate ad arte, addirittura sdoganate, legittimate. Mentre la società multirazziale nello sport (e non solo) sono un dato oggettivo, nella società il razzismo non è più represso.
L’ultimo esempio di un Italia sportiva “multicolore” è la nazionale di Volley brillantissima in Giappone, ai mondiali in corso, al di là della sconfitta irrilevante con la Serbia dopo 10 vittorie consecutive: oggi l’Italia sportiva torna a sognare con le azzurre che hanno iniziato la Final Six a caccia di quel titolo iridato sfuggito ai maschietti. “Se arriverà – è stato scritto in questi giorni – sarà la vittoria della nazionale dell’integrazione, trascinata in regìa da Ofelia Malinov e dalle bordate di Paola Egonu e Miriam Sylla.
Perché le «risorse», brutto nomignolo inventato dai cyberidioti, non sono solo quelle che violentano e spacciano droga, ma anche quelle che portano onore e gloria alla nostra nazione”. L’aspetto paradossale è che tutte queste esponenti della nazione e nazionale multientica sono e si sentono italianissime, quasi tutte cresciute proprio al Nord, anche se hanno dovuto provare sulla loro pelle fin da piccole l’italica scorticante lana d’acciaio del razzismo. Sylvia Nwakalor è nata e cresciuta a Garlate (Lecco) ma si è trasferita a Roma per la carriera. Qui l’hanno raggiunta la sorella Linda, pallavolista pure lei, la mamma Juliana e suo fratello Francis.
Miriam Sylla si trasferì a quattro anni con la famiglia a Villa San Carlo, frazione di Valgreghentino. Qualche anno dopo si avvicinò alla pallavolo: tre anni alla Polisportiva Olginate, poi ha spiccato il volo. Gioca, oltre che per grandissima passione, per tener fede a una promessa fatta anni ai genitori (“prima o poi con la pallavolo darò un senso a tutti i nostri sacrifici”). Su Instagram ha postato una foto di tutta la squadra e sotto ha commentato: “Alors on vit chaque jour comme le dernier. Parce qu’on vient de loin…” (Allora viviamo ogni giorno come l’ultimo. Perché veniamo da lontano). Può ben dirlo.
Così la Gazzetta dello Sport, tre anni fa, raccontò le vicissitudini che hanno portato Miriam a essere quello che è: “ C’era una volta Abdoulaye, un giovane ragazzo ivoriano, che decise di partire per l’Italia in cerca di fortuna. Con lui, quello che un giorno diverrà suo cognato. Volano dalla capitale Abdijan per arrivare a Bergamo. Nella città lombarda non trovano lavoro, dormono fuori dalla Caritas e soffrono il freddo. Ma nonostante le difficoltà non gettano la spugna. Semplicemente vanno a cercare fortuna al caldo, in Sicilia, a Palermo.
E lì la vita di Abdoulaye ha la svolta tanto attesa. Inizia a lavorare facendo le pulizie a casa di una coppia di signori palermitani, Maria e Paolo, che lui considera i suoi nonni. Nel frattempo arriva anche la sua futura moglie, Salimata. E l’8 gennaio 1995 nasce Miriam Sylla, poi i fratelli, Coumba e Mali”. Miriam ha dovuto subire due umiliazioni nel recente passato: squalificata perché risultata positiva al Clenbuterolo; era stata poi completamente scagionata. Nel frattempo, però, erano stati vomitati su di lui i peggiori insulti razzisti.
Come è capitato a Paola Egonu, veneta, di Cittadella, in provincia di Padova. Ama il rap, è sanguigna, ogni due anni va in Nigeria a trovare la famiglia dei suoi genitori. I quali erano arrivati oltre vent’anni anni fa: la mamma lavorava come infermiera, il padre faceva il camionista. Paola è considerata la trascinatrice del gruppo che venerdì comincia a giocarsi le semifinali ai mondiali alla Yokhoama Arena. E’ convinta afro-italiana perché: “Un’appartenenza non esclude l’altra”; in Italia per scelta, per amore del volley. Casa è dovunque siano i suoi genitori, sia Lagos, Abuja, Milano, o Manchester, dove il papà voleva portarla una volta trasferitosi ma lei rifiutò. “Ho deciso di restare a Milano, voglio sfruttare le opportunità che mi dà la pallavolo”.
In compenso va spesso in Africa a trovare il nonno, che è un capotribù e che non è proprio entusiasta di vedere la nipote mostrare gambe e braccia nude mentre gioca. Sul suo corpo, però Paola ha rifiutato anche il benchè minimo tatuaggio: non ne farà mai: preferisce rimanere “pura”, un tatuaggio, per lei, “è come rovinare il regalo che ti ha fatto il Signore”.
Nonno a parte, Paola ha tredici zii di cui una suora in Vaticano e innumerevoli cugini. A 12 anni si era iscritta alla piccola società del paese, finché due anni dopo la scoprì il Club Italia, la società fondata da Julio Velasco. All’epoca, nonostante fosse nata in Italia e ci vivesse da ben oltre un decennio, Paola, però, non era ancora “italiana”. A causa dell’arretratezza della legge, la cittadinanza arrivò solo ai quattordici anni, quando finalmente suo papà ottenne il passaporto tricolore. “Io mi sentivo azzurra da tempo – commentò la ragazza – ma senza quel documento non avrei potuto partecipare ai Mondiali in Perù…”.
La sua carriera non è stata tutta rose e fiori: “Ci sono stati degli episodi di razzismo nei miei confronti: più d’uno e spesso legati all’origine africana. A Treviso, durante una partita, i genitori delle avversarie facevano il verso della scimmia e mi insultavano urlando di tornare al mio paese e che potevo solo pulire per terra. Mi fece molto male. Specialmente se sei un’adolescente, insulti del genere ti feriscono. A me ha molto aiutato la vicinanza della squadra e dello lo staff”.
Con il tempo ha imparato a ignorarli e a lasciar correre. “Soprattutto capisci che nella pallavolo e nello sport il razzismo c’è, ma la realtà è un’altra: quella di coetanee e amiche che fanno gruppo con normalità, indipendentemente se sei figlia di immigrati o no. Proprio come noi della nazionale”.
Una nazionale che entro il 21 ottobre, data della conclusione dei mondiali giapponesi, dovrà tentare di abbattere il muro dell’ignoranza, dell’intolleranza, del razzismo molto più resistente delle muraglie pallavolesche dei cinesi, o delle dighe olandesi (possibili prossimi avversari): “Soffro molto le ingiustizie che ci sono oggi tra le persone comuni – ha dichiarata Paola Egonu a Vanity Fair -. Lottare per chi sta in situazioni di svantaggio mi fa sentire meglio. Attraverso le mie interviste ho parlato apertamente di razzismo e penso di aver aiutato molte ragazze che vivono il mio stesso disagio ma non hanno il coraggio di esternarlo. Ecco, nel mio futuro vorrei sempre ricordarmi da dove sono partita e quali sono le mie battaglie”.
Costantino Muscau
muskost@gmail.com