Il Nobel per la Pace non è a Denis Muwkege ma alle donne congolesi vittime di stupri

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andrea-spinelli-barrile82Speciale per Africa ExPress
Andrea Spinelli Barrile
Roma, 7 ottobre 2018

Il medico congolese Denis Mukwege e l’attivista per i diritti umani iracheno yazida Nadia Murad si divideranno l’onere, e l’onore, di essere insigniti del Premio Nobel per la Pace 2018. Con questo riconoscimento per la prima volta nella storia l’Accademia di Svezia riconosce l’importanza drammatica dello stupro come arma di guerra, a qualsiasi latitudine avvenga questo crimine.

La storia di Nadia Murad è incredibile, terribile, un incubo che sembra non concludersi mai. La storia di Denis Mukwege invece è diversa, è una storia perfettamente afro-borghese: terzo figlio di 9 fratelli, studente di medicina in Burundi, educazione internazionale, Mukwege nel 2004 è stato insignito del Premio Sakarov per la Libertà di Pensiero, riconoscimento che per alcuni – dal 5 ottobre Mukwege compreso – come Mandela e Suu Kyi ha significato l’anticamera per il Nobel, e da un ventennio gira il mondo in lungo e in largo per raccontare il dramma femminile della guerra in sud-Kivu, uno dei luoghi più dimenticati non solo del Congo ma dell’intero pianeta.

Nonostante l’agenda fittissima incontrare il dottor Denis Mukwege non è una missione particolarmente difficile: volendo addentrarsi nel cuore del Congo lo si può trovare al Panzi Hospital di Bukavu, regione del nord-Kivu nella Repubblica Democratica, oppure basta chiedere alla diaspora congolese, in qualunque altro paese del mondo, quando sarà possibile ascoltare ancora una volta il dott. Mukwege parlare.

Dennis Mukwege

“Il Dottore”, come lo chiamano i congolesi, è disponibile sempre e con chiunque a raccontare il suo lavoro, la sua missione, i drammi che quotidianamente ha imparato a fare propri, affrontandoli e superandoli. Un anno fa, per la precisione 11 mesi fa, Denis Mukwege si trovava a Roma per parlare di elezioni nella RDC di fronte alla diaspora congolese in Italia, una voce libera e critica verso il regime di Kabila; non si tratta semplicemente di un uomo che da anni professa una incrollabile fede nella democrazia e nel cambiamento popolare, quello che in Europa definiremmo “dal basso”. Il Dottore unisce con un filo rosso, sempre più ispessito dall’esperienza delle 1800 donne che ogni anno vengono accolte e curate al Panzi Hospital, il potere politico allo sfruttamento delle miniere e ai conflitti nelle zone remote dell’ex-Congo Belga.

Lo stupro come arma di guerra è solo la conseguenza di un potere irrispettoso della vita umana e oggi, ci disse Il Dottore un anno fa, è l’arma da guerra per eccellenza: dal Medio Oriente all’Africa passando dalla Bosnia, dal Kosovo e dall’America Latina, lo stupro è stato ampiamente utilizzato per diminuire il numero della comunità avversa. Paradossalmente l’atto di discendenza per antonomasia è stato utilizzato per uccidere uomini e donne nella loro dignità di esseri umani, per fare nascere individui che non verranno mai reputati tali, per contorcere le società fino a distruggerle lentamente dall’interno. Dopo le prime tre generazioni di vittime di stupro curate al Panzi in nord-Kivu Muwkege si rese conto che il lavoro di medico non poteva limitarsi all’aspetto clinico ma era necessario sublimasse in qualcosa di più grande, in un lavoro di conoscenza e di educazione che fosse il più ampio e il più dettagliato possibile. Se il mondo non conosce il mondo non può cambiare.

Per queste ragioni, e per molte altre, unire con un filo gli stupri alle logiche del mercato globale è un passaggio fondamentale: la guerra in Repubblica Democratica del Congo non è una guerra tribale o post-coloniale, non è una guerra tra regioni o legata al fanatismo religioso. Si tratta di un conflitto terribile che ha il fine ultimo del controllo delle risorse minerarie, in particolare delle miniere di Coltan e ognuno di noi, che legge questo articolo dal proprio computer o dal proprio smartphone, ne è co-responsabile: «Penso che ognuno di noi, ogni volta che riceve una telefonata, dovrebbe pensare alle migliaia di donne che vengono mutilate e uccise affinché il traffico di questo minerale possa continuare […] penso che un movimento di consumatori europei, americani, asiatici e africani possa interrogare le multinazionali sull’uso del Coltan: non bisogna pensare che ciò non è possibile» disse a Roma Denis Mukwege.

Pensieri che si legano al potere costituito nella Repubblica Democratica del Congo, con Mobutu Sese Seko prima e con la dinastia Kabila poi, un potere che non ha alcuna voglia e alcun bisogno di elezioni, di legittimazione popolare. Mukwege lo ha denunciato nel 2012 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e lo ribadisce in ogni occasione possibile, inimicandosi la piramide di potere congolese e costringendo la sua vita quotidiana agli ordini della scorta di Caschi Blu che l’ONU gli ha messo a disposizione per continuare a lavorare al Panzi Hospital.

Il Premio Nobel per la Pace a Denis Mukwege, per queste e per centinaia di altre ragioni, è il riconoscimento più importante a chi, con la propria azione quotidiana, fa di tutto per riuscire a cambiare l’ordine delle cose. L’azione del Dottore non è solo solidale e professionale ma è anche attivismo puro, è la consapevolezza e la forza che gli viene infusa ogni giorno dalle sue pazienti, distrutte nel corpo ma ancora piene di umanità, di dignità. Il Premio Nobel per la Pace a Mukwege non è un riconoscimento al Dottore ma a tutte le sue pazienti: «Trovo che le donne di cui mi prendo cura abbiano un coraggio eccezionale […] mi sento fortunato di poter fare quello che faccio per loro».

Andrea Spinelli Barrile
aspinellibarrile@gmail.com
@spinellibarrile