AFRICA

Oro, argento, bronzo e …doping: l’atletica del Kenya ne offre in quantità industriale

Dal Nostro Corrispondente Sportivo
Costantino Muscau
Milano, 6 ottobre 2018

Pochi giorni fa (il 27- 28 settembre) l’Athletics Integrity Unit (AIU), che, come dice la parola stessa, si occupa della integrità degli sportivi, ha dichiarato ufficialmente a Nairobi: “Il Kenya è uno dei tre Paesi al mondo in cui gli atleti sono i più drogati”.

Alcuni esempi, giusto per gradire.

Asbel Kipruto Kiprop, 29 anni, campione mondiale e olimpico dei 1500 metri, è stato squalificato perché trovato positivo all’Epo (eritropoietina) il 27 novembre scorso. La medaglia d’oro olimpica gli venne assegnata un anno dopo le olimpiadi di Pechino (2008) perché  il vincitore, il marocchino Rashid Ramzi,  era stato eliminato per…doping!

Kipyegon Bett, 20 anni, medaglia di bronzo sugli 800 metri ai mondiali del 2017 di Londra, è stato temporaneamente sospeso, nell’agosto scorso, da tutte le competizioni perché si è rifiutato, o ha mancato, di sottoporsi al controllo antidoping. Non aveva superato l’esame dell’Epo.

Ruth Jebet,  che corre per il Bahrain, definita ragazza prodigio perché a 21 anni è già campionessa olimpica e detentrice del record mondiale sui 3 mila siepi, è stata sospesa nel febbraio scorso per sospetto  uso di sostanze proibite.

Rita Jeptoo, 37 anni,  grande protagonista della maratona mondiale (vittoriosa a Stoccolma, Milano, 3 volte a Boston, due a Chicago) nel 2016 è stata eliminata dalle competizioni nel 2016 per 4 anni e privata di tutti i risultati dal 17 aprile 2014 perché trovata positiva all’Epo.

Jemima Selagat Sumgong, 34 anni, altra illustre maratoneta – è stata la prima donna del suo Paese a diventare campionessa olimpica a Rio nel 2016 –  è un’altra illustre vittima dell’Epo: anche a lei, nel 2017,  sono stati inflitti 4 anni di penalizzazione.

In sintesi: tra il 2004 e il I agosto scorso gli organismi mondiale e nazionale antidoping hanno colto in fallo ben 138 atleti kenyani , <positivi> ai test antidroga, 113 di essi dopo gare ufficiali.

Ma…  niente paura (si fa per dire): negli stessi giorni di fine settembre l’Agenzia Mondiale Antidroga (Ama, o Wada), ci ha rassicurati: “Il fenomeno doping in Kenya, pur vasto e preoccupante, non è istituzionalizzato. Esso è nettamente diverso da quello scoperto nel resto del mondo: non è legato allo Stato nè a reti criminali, bensì a scelte individuali”. Il riferimento è a quanto è successo in Russia: qui, contrariamente al Kenya, era stato verificato un sistema istituzionale di dopaggio tra il 2011 e  il 2015. Per questo l’Agenzia Mondiale aveva inflitto alla Russia delle sanzioni, levate – tra forti polemiche –  appena il 20 settembre scorso.

Athletes run as an anti doping banner is seen during the heat of the men’s 100m at the Kenya National Trials at Kasarani Stadium in Nairobi on June 21, 2018, ahead of the 21st African Senior Championships in Nigeria to be held on August 1-5, 2018. / AFP PHOTO / Yasuyoshi CHIBA

Sia Aiu sia Wada (o Ama) in quei giorni di fine settembre si sono ritrovate a Nairobi, assieme a un altro organismo fratello (l’Agenzia antidoping del Kenia – Adak) per rendere noti i risultati di una lunga e approfondita ricerca sulla diffusione del doping nel Kenya denominata Kenya Project. Uno studio avviato nel dicembre 2016 che si proponeva di “investigare i più grandi corridori sulle lunghe e medie distanze, gli allenatori, medici e assistenti, personale di supporto, dirigenti di società”. Alla fine di questo lavoro, è stato sollevato un velo sulla disciplina sportiva, che, da decenni,  rende il Kenya ammirato e invidiato in tutto il mondo. E in parte ha risposto alle domande che esperti, scienziati, medici, curiosi si ponevano dopo le mirabolanti performance di tanti campioni provenienti dalla Rift Valley: “Che cosa li rende così forti nel fondo, nel mezzofondo, nella maratona? L’allenamento in altura, la loro struttura fisica, la cultura della corsa, un fatto innato?”.

Dall’inchiesta realizzata e resa pubblica da parte dei tre organismi antidroga, emerge, infatti, che a supportare tanti atleti con prestazioni spesso al limite dell’umano (si veda il recordman della maratona Eliud Kipchoge , di cui abbiamo parlato recentemente su Africa Express) c’è anche un sistema otto , o bacato, o poco brillante, come minimo; sicuramente unico al mondo almeno per le sue caratteristiche. Un sistema dove si ricorre  a piene mani a due “aiutini” poco naturali: “il Nandrolone e l’Epo sono le sostanze più comunemente usate  dagli atleti”, hanno dichiarato i responsabili di Wada, Aiu e Adak. L’Epo ( eritropoietina) è un ormone che regola la produzione dei globuli rossi e quindi aumenta l’apporto di ossigeno ai muscoli con conseguenti vantaggi per chi pratica sport come atletica e ciclismo. Chi se ne serve deve essere esperto, o ben assistito. Il Nandrolone, invece, è uno steroide che si trova con facilità, costa poco e si prende per bocca. “Il fenomeno è molto serio – ha commentato Brett Clothier, responsabile de l’AIU – siamo tutti preoccupati”.

Tuttavia,  “dal sondaggio è emerso che non c’è prova dell’esistenza di un dopaggio istituzionalizzato , sofisticato, organizzato – ha dichiarato Gunter Younger dell’Agenzia mondiale antidroga – molti atleti addirittura non sanno neppure che si dopano e non hanno idea delle conseguenze, oltre a non conoscere le regole antidoping. I campioni kenyani hanno una facilità estrema a trovare i prodotti proibiti, recandosi direttamente in farmacia, oppure utilizzando farmaci che contengono sostanze considerate dopanti. Occorre una campagna di educazione dei corridori e dare risposte forti in caso di positività accertate”.  Queste parole rimandano a quello che , due anni fa, dichiarò ”al Corriere della Sera”, il professore medico bresciano Gabriele Rosa, che da 30 anni lavora in Kenya e che ha creato maratoneti come la Sumgong, di cui è manager: “Gli atleti sono ignoranti, nella migliore delle ipotesi. E stupidi. Vengono avvicinati da gente che propone loro scorciatoie, dicono di sì con leggerezza. E’ gravissimo”.  Ecco perchè  Humphrey Kayange, presidente del Comitato Nazionale Olimpico del Kenya (CNP), ha ribadito : “Dobbiamo insistere sull’educazione degli atleti e del loro entourage al fine di ridurre l’ignoranza e la negligenza voluta di certi responsabili”. Tanto per cominciare Japhter Rugut, direttore dell’Adak, si augura che si pongano in  atto restrizioni al facile accesso all’acquisto di sostanze illegali. E’ stata l’unica proposta concreta , assieme a quella ambiziosa di educare il mondo dell’atletica a una maggior consapevolezza,  di quella due giorni che ha fatto il punto sullo stato della droga sportiva in Kenya.

Per il resto non è emerso null’altro di concreto. Si sta studiando che fare. Per ora è ci si affida al Pathologist Lancet, il primo laboratorio kenyano accreditato internazionalmente per passare al setaccio gli atleti non solo del Kenya, ma anche di Etiopia, Eritrea, Tanzania e Uganda. E’ un grande passo, la creazione di questo laboratorio in grado di esaminare 4000 mila specimen al giorno. Fino alla fine di agosto, infatti, i campioni di sangue dovevano essere spediti in Europa entro 36 ore. Ora saranno analizzati in loco. “L’esistenza di un controllo locale – ha dichiarato l’altro giorno a Le Monde  il biologo Ahmed Kalebi, fondatore nel 2009 di Pathologist Lancet – sarà un deterrente per quegli atleti che possono procurarsi l’Epo a poche centinaia di euro anche in aree isolate dove si allenano. Certi giovani, di umili e povere origini, non esitano a spendere queste cifre per conquistare un podio, sinonimo di gloria e di successo”.

Il primo test della nuova struttura sarà fra un anno: nell’autunno 2019 si disputeranno a Doha i campionati del mondo di Atletica. Ma sarà una guerra di lunga durata e non necessariamente vittoriosa quella contro il doping in Kenya. Proprio nelle giornate in cui negli stati maggiori dei tre organismi deputati a contrastare l’assunzione di sostanze illecite erano in bella mostra a Nairobi, la Federazione internazionale di Atletica (Iaaf) ha pubblicato l’elenco aggiornato degli atleti sanzionati per violazione delle regole antidoping. Esso comprende russi, indiani e una batteria di – indovinate un po’?-  di kenyani: Micah Kiplagat Samoei, positivo alla marcialonga  di Cavalese nel 2016: 2 anni di squalifica; stessa sanzione per Nicholas Kiplagat positivo nel 2017; Peter Kiptoo Kiplagat, positivo al Clenbuterolo ( aumenta i muscoli e diminuisce il grasso) alla maratona di Casablanca ( bandito per 4 anni dal 9 marzo scorso); Ferdinand Omanyala, velocista, positivo al glucocorticoide betametasone (si dà anche ai cavalli!), “espulso” per 14 mesi a partire dal 14 settembre scorso; il suo allenatore Duncan Ayiemba, cacciato per 2 anni. Infine Michael Koskei Rotich,  l’ex team manager della squadra olimpica a Rio, condannato , “per complicità”, a stare lontano dalle piste sino al 2020.

Una lista del disonore, desolante, che conferma quanto accertato dall’inchiesta e che offusca la reputazione del Kenya. Eppure incompleta. Prima che la Iaaf aggiornasse la sfilza degli “appestati”, il 7 agosto scorso, era stato sospeso dall’Athletics Integrity Unit, anche Samuel Kalalei, vincitore a novembre 2017 della maratona di Atene: “bocciato” al test dell’Epo avvenuto il 4 giugno. Poco prima erano stati incastrati (per uso di morfina) Lucy Kabuu Wangui, campionessa dei 10 mila metri ai Commonwealth Games e il velocista Boniface Mweresa. Tutti e tre scoperti e denunciati in 10 giorni. Un record di cui il Kenya sportivo dovrebbe fare volentieri a meno.

Certo fa uno strano effetto che il  maggior esportatore  al mondo di piretro, una pianta utilizzata per insetticidi e prodotti antiparassitari, non riesca a debellare un parassita dannoso come  il doping….

Costantino Muscau
muskost@gmail.com

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Cornelia Toelgyes

Giornalista, vicedirettore di Africa Express, ha vissuti in diversi Paesi africani tra cui Nigeria, Angola, Etiopia, Kenya. Cresciuta in Svizzera, parla correntemente oltre all'italiano, inglese, francese e tedesco.

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