Sandro Pintus
Firenze, 6 ottobre 2018
Fino ad ora sono 189 i detenuti sospettati di essere militanti islamici accusati di terrorismo nella provincia di Cabo Delgado, nell’estremo nordest del Mozambico, a 2.500km dalla capitale Maputo.
Mercoledì scorso è iniziata la prima fase del processo contro i presunti jihadisti e, visto il grande numero di imputati, l’aula improvvisata del tribunale è una grande tenda montata nel cortile del carcere di Pemba, capoluogo della provincia mozambicana.
Centocinquantadue degli accusati sono cittadini mozambicani. Gli altri sono stranieri: 29 tanzaniani e tre cittadini somali. Tra gli imputati ci sono anche 42 donne. Le accuse, lette dal procuratore Rodrigo Munguambe, a carico dei presunti terroristi islamici sono gravissime: omicidio di primo grado, uso di armi bandite, appartenenza ad associazione criminale e istigazione alla disobbedienza collettiva contro l’ordine pubblico.
I detenuti mozambicani per la maggior parte sono dell’area di Cabo Delgado ma provengono anche dalle province centrali del Paese: Zambezia e Nampula, e da Beira, seconda città mozambicana e capoluogo della provincia di Sofala.
Secondo quanto detto dal procuratore Munguambe i seguaci del gruppo jihadista sono stati reclutati nelle moschee locali da cittadini stranieri provenienti dalla confinante Tanzania. Il reclutamento è stato possibile attraverso la promessa di una grande quantità di denaro se gli affiliati avessero incitato i cittadini di Cabo Delgado a disobbedire e a mancare di rispetto alle autorità dello Stato mozambicano.
I detenuti tanzaniani provengono invece dall’isola di Zanzibar e delle aree di Songea, Mtwara e Masasi, vicino al confine mozambicano. I tre somali sono della zona di Chisimaio, nel sud della Somalia. Lunedì prossimo la fase processuale avrà inizio con gli interrogatori dei singoli accusati.
Viene così confermato lo studio sull’estremismo islamico in Mozambico voluto dal presidente mozambicano Filipe Nyusi e realizzato da João Pereira e Salvador Forquilha dell’Università di Maputo con il leader religioso islamico Saide Habibe.
Esattamente un anno fa, il 5 ottobre, il primo attacco jihadista a una stazione di polizia di Mocimboa da Praia, cittadina di Cabo Delgado dove sono stati uccisi tre poliziotti e 17 estremisti islamici.
Dalla popolazione vengono chiamati al Shebab ma secondo l’indagine di Pereira e Forquilha il loro nome è “Ahlu Sunnah Wa-Jammá” (in arabo ‘seguaci della tradizione del profeta’) e nelle settimane e mesi seguenti sono continuati altri assalti alla popolazione civile nelle città e nei villaggi isolati depredati e messi a ferro e fuoco.
Con il passare dei mesi gli attacchi sono diventati più brutali e soprattutto l’obiettivo è diventato la popolazione inerme ammazzata a colpi di AK-47 e all’arma bianca. Fino ad ora si contano – secondo Bernardino Rafael, comandante della polizia mozambicana (PRM) – novanta morti, anche decapitati o bruciati vivi. Tra questo anche bambini. I feriti sono stati sessantasette e oltre 1.600 le case distrutte con migliaia di sfollati.
Il presidente Nyusi, in aiuto della polizia locale, ha mandato le Forze armate che hanno chiuso o raso al suolo varie moschee. È infatti necessario fermare una deriva estremista che sarebbe potuta diventare ingestibile in un territorio dove ENI ed ExxonMobil stanno lavorando all’estrazione di gas naturale da uno dei maggiori giacimenti africani che sarà operativo nel 2021.
Bisogna ricordare che a qualche centinaio di chilometri, a sudovest dalla zona degli attacchi jihadisti, opera la Montepuez Ruby Mining nel più grande giacimento di rubini del mondo. Qui i capi delle cellule che ammazzano e distruggono in Mozambico si finanziano con il contrabbando di pietre preziose ma anche con l’avorio illegale e il legno pregiato. La posta in gioco per il Mozambico è troppo alta.
Sandro Pintus
sandro.p@catpress.com
Twitter: @sand_pin
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