Ginevra – Juba, 2 ottobre 2018
E’ un medico sud-sudanese il vincitore del prestigioso premio Nansen dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, edizione 2018.
Evan Atar Adaha, il solo chirurgo nell’ospedale di Bunj, nell’Upper Nile State, che dista oltre seicento chilometri dalla capitale Juba, è il solo noscomio ancora aperto in tutto lo Stato dell’estremo nord del Paese, investito dalla sanguinosa guerra civile che si consuma dal 2013. Vedremo se l’ennesimo trattato di pace, firmato recentemente a Khartoum tra il presidente Salva Kiir e Riek Machar, possa riportare stabilità nel Sud Sudan.
Bunj è una piccola città al confine con il Sudan, e l’ospedale è l’unico punto di riferimento per un’utenza di quasi duecentomila persone, tra loro anche molti rifugiati sudanesi. “Spesso i nostri pazienti devono camminare ore e ore per raggiungerci. Noi accogliamo chiunque e capita che un solo letto debba essere condiviso da più malati. E’ una sfida incredibile, ma per questa gente non c’è un altro ospedale a disposizione e negare le cure è come dire: Andate a morire a casa vostra”, ha spiegato il medico.
Adaha opera fino a dieci pazienti al giorno, toglie cisti, interviene su tiroidi, pratica tagli cesari e quant’altro. Apparentemente sembra la vita di un chirurgo qualunque, ma non è così. La sua sala operatoria è spesso poco illuminata, quando manca la corrente elettrica dipende dai capricci di un generatore ormai vecchio e malandato. Non esiste una banca del sangue per eventuali trasfusioni e non di rado non funzionano nemmeno i macchinari per l’anestesia e, in mancanza d’altro, per poter procedere con gli interventi, il medico è costretto a ricorrere a semplici iniezioni di ketamina (anestetico dissociativo che non inibisce la respirazione autonoma, dunque è più sicuro quando non si hanno a disposizione tutti i presidi necessari per il monitoraggio del paziente).
Il chirurgo sud sudanese è un uomo umile, eppure è sempre elegante con la sua camicia a righine bianche e blu. Vive in una tenda accanto all’ospedale, quando potrebbe condurre una vita di lusso. Non è fuggito altrove all’inizio della guerra civile, come hanno fatto la maggior parte dei suoi colleghi. E’ rimasto qui, per prendersi cura dei malati, della povera gente, vittima di questa assurda guerra.
Il Premio Nansen per i Rifugiati prende il nome da Fridtjof Nansen, esploratore polare e umanitario norvegese che negli anni venti ha ricoperto il ruolo di primo Alto Commissario per i Rifugiati per la Società delle Nazioni. Nel 1922 Nansen ha vinto il premio Nobel per la pace per il suo coraggioso e infaticabile lavoro in favore dei rifugiati della prima guerra mondiale. Il Premio Nansen per i Rifugiati, attraverso i suoi vincitori, si propone di ricordare i valori di perseveranza e tenacia di fronte alle avversità.
L’ importante riconoscimento è stato consegnato, insieme ad un assegno di centocinquantamila dollari il 1°ottobre, durante una breve cerimonia a Ginevra, in presenza di alcuni funzionari dell’UNHCR e dell’attrice australiana Cate Blanchett.
Questo straordinario medico, oggi cinquantaduenne, è rimasto orfano di padre, un allevatore, all’età di soli sette anni e secondo la tradizione, avrebbe dovuto prendersi cura della famiglia. Ma la madre ha deciso diversamente per lui, mandandolo a studiare a Juba. Diverse borse di studio gli hanno permesso di proseguire la sua istruzione a Khartoum e in seguito al Cairo, dove ha anche iniziato a lavorare come medico. Nel 1997 si è trasferito a Kurmuk in Sudan, dove in quegli anni si stava consumando una sanguinosa guerra civile. E’ da allora che è diventato un “maestro dell’improvvisazione”: isolato dal mondo, senza medicinali, è stato costretto ad applicare impacchi di erbe per fermare le emorragie, cucire con filo da pesca le ferite profonde, praticare una tracheotomia (intervento che consiste nell’incisione della trachea, per aprire una via respiratoria alternativa a quella naturale) con un qualunque gambo o stelo vegetale appuntito.
Nel 2011 i combattimenti si stringono attorno alla città di Kurmuk, non c’era più nulla da mangiare. Il dottore prepara i bagagli e insieme ad altri, decide di partire verso il Sud Sudan, che allora aveva appena conquistato l’indipendenza dal Sudan. Il piccolo convoglio, composto da quattro automobili e un trattore impiega oltre un mese per percorrere cento chilometri. Lui e i suoi compagni d’avventura si fermano a Bunj, una delle prime città appena oltre la frontiera, dove si trovava un piccolo ospedale abbandonato. “Siamo arrivati il 22 novembre e abbiamo iniziato ad operare il giorno successivo”, ricorda Atar. E da allora non si è mai fermato. Si concede pochi giorni di vacanza tre volte l’anno, per raggiungere moglie e figli che vivono a Nairobi.
Ora nel piccolo nosocomio lavorano una cinquantina di persone e quattro medici, grazie a fondi messi a disposizione dall’ONG Samaritan’s Purse, un’ organizzazione umanitaria cristiana evangelica, e dall’UNHCR. Le sale operatorie ora sono diventate due; recentemente è stato possibile costruire anche un reparto per gli ammalati di tubercolosi e il personale riceve regolarmente uno stipendio.
Con i soldi del premio, il chirurgo vorrebbe acquistare materiale per l’ospedale, come diverse grandi lampade alogene per evitare le ombre nella sala operatoria, apparecchi per l’anestesia e dotare il nosocomio di un reparto di maternità.
Africa ExPress
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