Franco Nofori
Mombasa, 26 settembre 2018
Nei cinquantaquattro Paesi africani ci sono diverse ambasciate da tutto il mondo. E spesso sono tutte collegate a istituti per la cooperazione internazionale. A queste vanno aggiunte le varie agenzie dell’ONU, le missioni cristiane che sono 552 mila (fonte Pew Fundation, Philadelfia, USA, www.pewtrusts.org/en) e le NGO il cui numero totale è difficilmente quantificabile, ma stando ai dati forniti dal monitoraggio dell’Associazione Giornalistica Britannica, pubblicata sulla rivista americana”The Conversation” (www.dec.ny.gov/pubs/conservationist.html), solo in Sudafrica ne esistono 400 mila, mentre 100 mila risultano registrate in Kenya. Oltre a queste presenze, vanno anche considerate le attività umanitarie islamiche, la Croce Rossa Internazionale e una miriade d’iniziative a carattere privato che realizzano scuole, ospedali e opere di assistenza in genere.
Anche riferendosi esclusivamente alle NGO, si deve concludere che, per quanto riguarda il Kenya, ogni NGO dovrebbe occuparsi di circa 450 persone, ma relativizzando questo numero all’indice di povertà presente nel Paese (stimato in un terzo degli abitanti), ogni NGO avrebbe a suo carico, solo 150 persone. Infine, inserendo in questa analisi anche le altre istituzioni cui abbiamo accennato, il numero si ridurrebbe ulteriormente a poche decine di persone. E’ vero che non tutti questi organismi si dedicano ad alleviare la povertà, ma agiscono anche in altri settori della vita sociale, tuttavia il numero di queste presenze resta comunque molto alto. Perché allora i poveri in Kenya aumentano invece di diminuire?
Abbiamo scelto il Kenya per queste riflessioni, non solo perché offre più attendibili elementi di valutazione, ma soprattutto perché tra le nazioni africane non è certo quella più colpita dalla povertà e dal degrado. Ciò nonostante il suo tasso di crescita demografica è molto alto e malgrado l’apprezzabile incremento del PIL (soprattutto determinato dagli investimenti cinesi), cresce anche l’indebitamento pubblico e il numero delle persone condannate alla miseria. Di conseguenza, crescono del pari, criminalità e corruzione.
Se, come sosteneva Bertrand Russell, i numeri sono immuni da qualsiasi, se pur dotta, speculazione dialettica, questo non può che portarci a concludere che nella gestione di questa imponente presenza di associazioni caritatevoli e salvo alcune lodevoli eccezioni, c’è qualcosa di profondamente sbagliato. Si tratta di organizzazioni non orientate al profitto, che si finanziano con il contributo dei governi dei Paesi di appartenenza, dei vari dipartimenti delle Nazioni Unite e delle spontanee offerte di privati cittadini, sollecitate attraverso campagne di sensibilizzazione sui media e sui social network.
Queste considerazioni non sono ovviamente volte a mortificare la commendevole e infaticabile opera che migliaia d’individui svolgono in luoghi inospitali, assoggettandosi a sacrifici e a rischi, pur di obbedire al genuino intento di accorrere in aiuto di chi soffre, ma se lo stesso gigante FAO utilizza l’80 per cento delle proprie risorse all’unico scopo di mantenere se stesso, è facile comprendere quanto dispersivo, se non addirittura fraudolento, possa rivelarsi il funzionamento dell’enorme apparato istituzionalmente dedito al miglioramento delle condizioni di vita dei diseredati del pianeta.
Del resto, chiunque in Africa (ma non solo) sia entrato in contatto un po’ approfondito, con alcune di queste organizzazioni, avrà senz’altro riscontrato, quanto possa risultare disinvolta la loro gestione finanziaria; stipendi generosi, auto e residenze di lusso, sedi prestigiose, stuoli di segretarie graziose e profumatamente pagate. In queste condizioni è fatale che non molto resti poi disponibile per adempiere alle funzioni per cui l’organismo era stato costituito. Naturalmente – è bene ripeterlo – qui non si intende generalizzare e quindi è bene sottolineare che ci sono le dovute eccezioni.
L’ONU, il macrocosmo internazionale, cui è affidato il compito di risolvere i problemi del pianeta, ha un bilancio annuo che supera i 13 miliardi di euro, circa tredici volte superiore a quello che aveva 25 anni fa. Questo dovrebbe significare che la sua efficienza è migliorata di almeno tredici volte, ma sappiamo tutti che non è così, anzi, più passano gli anni e più l’ONU appare come un decrepito vecchio che avanza con esasperante lentezza inciampandosi nelle proprie vesti. Questo organismo è allora del tutto inutile come già sosteneva Luciano Tirinnanzi cinque anni fa su Panorama? Forse no. Forse potrebbe ancora rivelarsi utile, ma solo attraverso una radicale riforma di se stesso.
Tra l’altro, l’Italia, pur non essendo un membro permanente del Consiglio di Sicurezza e non godere quindi del diritto di veto, è il sesto finanziatore mondiale di questo mostruoso bilancio di cui si fa carico del 5 per cento. Vale a dire, 650 milioni di euro che ogni anno escono dalle tasche dei contribuenti italiani per alimentare il prestigioso palazzo di vetro sulle rive dell’East River. Più di Cina e di Russia, che del Consiglio sono però membri permanenti e possono agevolmente controllarlo con il diritto di veto. Oltretutto questo nostro contributo non tiene conto dei costi per le varie missioni di pace keeping italiane sparse in varie parti del mondo.
Visto che parliamo del Kenya, è bene sapere che la più grossa sede delle Nazioni Unite, con tutte le agenzie sussidiarie che lo compongono (ci lavorano più o meno 5 mila persone), si trova proprio a Nairobi, dirimpetto all’ambasciata degli Stati Uniti, ma al di là del compiacimento che questa scelta può provocare all’orgoglio nazionale dell’ex colonia britannica, coloro che nel Paese vivono sotto la soglia di povertà, ne stanno beneficiando ben poco per non dire nulla.
Franco Nofori
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