Barbara Ciolli
24 settembre 2018
A Tripoli si teme una guerra prolungata come nel 2014 o ancora peggiore, visto che da allora le condizioni di vita in Libia sono continuamente peggiorate, fino alla nuova grave crisi che dalla fine dello scorso agosto ha fatto oltre 110 morti e oltre 400 feriti, solo nella capitale. L’economia e la sicurezza si sono sempre più deteriorate da quando Tripoli è finita in mano al blocco delle milizie islamiste (un’etichetta, in realtà un cartello mafioso di potenti bande criminali) legate all’esecutivo – legittimato dall’ONU – del premier Fayyez al Serraj. Gli ultimi 15 morti a Tripoli del 21 settembre sono la riprova che la quiete, raggiunta attraverso giorni di mediazione delle Nazioni Unite e di varie cancellerie straniere, era solo di facciata.
I problemi restano, Tripoli può tornare a incendiarsi in qualsiasi momento per questioni diverse di zona in zona, come il “controllo di una banca, dell’aeroporto o anche l’uccisione per errore di una persona”, racconta ad Africa ExPress la giovane scrittrice di Tripoli Nadia Ramadan, molto attiva sui social network, che conferma gli scontri diffusi in diverse zone, non solo nei quartieri meridionali. “Da lì sono partiti con l’arrivo della Settima brigata dalla città a sud di Tripoli, Tarhouna”. Attraverso la strada del vecchio aeroporto hanno poi raggiunto “l’area di Abu Saleem”, la Tripoli bene di “al Andalus”, fino all’altro scalo a nord-est, l’unico funzionante, del Mitiga, bersagliato da razzi. Per giorni gli scontri si sono avvertiti chiaramente anche a Tajoura, dove abita Ramadan, una dozzina di chilometri a est di Tripoli.
Al Serraj è come accerchiato nella base protetta di Abu Sitta, sulla costa. Frange di milizie di altre città sono accorse in diversi quartieri della capitale, per combattere insieme alla Settima brigata il cartello politico-criminale che controlla tutti gli affari e la politica di Tripoli. Anche nel 2017 parte delle milizie islamiste era entrata in collisione con il governo di al Serraj e aveva lanciato l’assalto dei ministeri, ma gli scontri non erano mai durati più di una settimana. La gente ha sempre più paura e inizia a riparare in altre zone o all’estero. Come durante le rivolte del 2011 contro Gheddafi, e quattro anni fa, quando il fronte islamista di Alba libica rovesciò il governo laico (un’altra etichetta) partorito delle elezioni democratiche – a bassissima affluenza – conquistando la Tripolitania, parte dei residenti è stata evacuata dalle zone degli scontri.
Per chi resta i guai sono anche economici, per alcuni di sopravvivenza: da un paio di anni le banche non hanno liquidità, l’elettricità salta per diverse ore al giorno (fino a nove ultimamente) e di conseguenza parecchie attività sono bloccate. Questa estate, con la colonnina di mercurio che superava i 40 gradi, diverse famiglie hanno raggiunto le spiagge e si sono gettate in mare per refrigerarsi, i più fragili soffrono senza condizionatori. “C’è chi cerca ogni giorno di trarre il meglio dal peggio, adattandosi, e chi invece riesce a lasciare il Paese”, spiega Ramadan. Tutti sono a ragion veduta arrabbiati con il governo, in teoria di unità nazionale, di al Serraj, nato dopo mesi di negoziati dell’Onu tra diverse parti, ma incapace in due anni e mezzo di realizzare la benché minima parte del programma.
Anzi la criminalità e le divisioni tra libici sono ulteriormente aumentate. Verso l’offensiva della Settima brigata e delle altre milizie salite sul carro i sentimenti sono “misti”: una parte dei tripolini si aggrappa alla speranza degli slogan di liberare Tripoli dal cartello dei gruppi armati corrotti di al Serraj e del suo vice Ahmed Maitig; altri disillusi sono consapevoli che si tratta pur sempre di altre milizie che entrano a Tripoli “solo per farsi gli affari loro”, chiosa Ramadan. Spartirsi la torta o quel che ne rimane: nel saccheggio della Libia che va avanti dal 2011, la gente ha perso il conto delle milizie presenti sul territorio, si limita a pagare il pizzo a quelle che lo impongono e a dare il meno possibile nell’occhio, specie se si possiedono beni e proprietà attraenti.
Nell’ex colonia italiana in ogni città-Stato (contano i sindaci e le rispettive milizie di riferimento, non il governo di Tripoli) non si sa quel che accade in altre città-Stato, anche per i quartieri della capitale è lo stesso. Gli analisti hanno ricostruito che al momento i gruppi armati e criminali di Tripoli fanno capo a un cartello di tre grosse brigate e relativi signori della guerra (Haitham al Tajouri, comandante delle Brigate rivoluzionarie di Tripoli, la brigata di Ghnewa al Kikli e le forze di Abdel Rauf Kara). Quattro considerate anche le unità speciali Rada di matrice salafita: la principale forza antiterrorismo di al Serraj, peccato che sui costumi da rispettare la pensino più o meno come l’ISIS e arrestino “per indecenza” chi li trasgredisce. Circa un anno fa, le Rada che scattano in azione contro l’ISIS hanno portato via anche dei bambini in un blitz all’evento “blasfemo” Comic on.
Centinaia di persone, anche libiche, spariscono in prigioni durissime, private dei basilari diritti. L’impressione di Ramadan, come di tante persone comuni, è che “le milizie che comandano a Tripoli siano molte di più di quattro”. La gran parte delle informazioni che arriva ai cittadini è “politicamente pilotata, in particolar modo le notizie sull’ISIS”. È impossibile ricostruire quanto accade, anche a causa delle numerose forze interne ed esterne che tentano di accaparrarsi la Libia o parte di essa. Sull’ISIS c’è buio fitto, come sul Movimento dei giovani libici sbucato dal nulla che ha iniziato a manifestare contro le lobby di Tripoli e la crisi stagnante. Di certo c’è solo che l’attentato del 10 settembre scorso rivendicato dall’ISIS alla sede della Compagnia nazionale del petrolio (NOC) non può essere opera di alcuna delle milizie in guerra tra loro: tutti i gruppi armati traggono profitto, sotto varie forme, dagli introiti del NOC. Non a caso il suo quartier generale nella capitale non era mai stato colpito prima.
Anche il clan dei Gheddafi, attraverso il delfino del rais Saif al Islam sopravvissuto alle rappresaglie, è tra gli attori che hanno interesse a destabilizzare la Libia. Tuttavia sempre più libici, incluso chi nel 2011 parteggiava per le rivolte, rimpiangono il regime. “Siamo ostaggio delle milizie”, commenta Ramadan, “per i libici è uno dei periodi più difficili mai vissuti, soprattutto nel sud”. Nel deserto che sconfina nel Sahel il controllo del territorio è sempre stato molto scarso e i traffici di mercenari, armi, terroristi dell’ISIS e di altri gruppi jihadisti in fuga anche dalla Siria e dall’Iraq si sono intensificati dalla caduta di Gheddafi. Ognuno fa entrare i mezzi e gli uomini che vuole. Ma l’anarchia riguarda ormai tutta la Libia, “perduta dal 2014” per Ramadan. Prima di allora i “gruppi armati non erano così frammentati, le elezioni avrebbero forse potuto essere salvate. La situazione in qualche modo poteva esser risolta”. Oggi quasi nessuno lo crede più a Tripoli.
Barbara Ciolli
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