Speciale per Africa ExPress
Pier Mario Puliti
18 settembre 2018
Ci sono eventi che cambiano la Storia delle nazioni e la vita di intere popolazioni. Il 18 Settembre del 2001 è stata un giorno che ha segnato il futuro dell’Eritrea e quello di centinaia di migliaia di giovani costretti a fuggire dal sanguinario regime di Isaias Afeworki. Molti sono morti nei deserti infuocati di Sudan, Egitto, Niger e Libia o tra le acque del Mar Mediterraneo, e centinaia di migliaia hanno varcato il confine con l’Etiopia, nemico da sempre, ed ancora oggi, affollano i campi profughi del Tigray, assistiti dalla comunità internazionale.
Mentre il mondo era concentrato su ciò che era accaduto alle Torri Gemelle di New York appena una settimana prima, ad Asmara venivano arrestati tutti i membri del Governo eritreo, coloro che, con fermezza, per settimane, sui media locali, avevano chiesto l’applicazione della Costituzione scritta nel 1996 ma mai applicata dal dittatore.
Nessun capo d’accusa, nessun processo, nessuna possibilità per le famiglie di poterli incontrare. Isaias ha così assunto il potere assoluto del Paese circondato dagli scagnozzi di regime, mezze figure che gli garantivano fedeltà assoluta.
Sono seguiti anni bui per l’Eritrea, tempi in cui il Paese, isolato e penalizzato dalle sanzioni ONU, ha iniziato un inesorabile declino economico-sociale mentre l’Etiopia, sotto la guida del Primo Ministro Meles Zenawy conosceva una crescita economica senza precedenti per un paese africano. Anche l’Etiopia, tuttavia, ha dovuto affrontare crescenti tensioni, provocate dalle secolari rivalità tra i diversi gruppi etnici che si opponevano allo strapotere del gruppo dirigente tigrino mentre i sempre più stretti rapporti commerciali con la Cina portavano, in pochi anni, allo sviluppo di un sistema di infrastrutture di vitale importanza per una nazione con una superficie di oltre un milione di chilometri quadrati. La metropolitana di Addis Abeba, il sistema autostradale, la nuova ferrovia per Gibuti hanno permesso un crescente numero di insediamenti industriali non solo nelle vicinanze della capitale ma anche in zone ritenute, fino a pochi anni prima, marginali e sottosviluppate.
Le contestate dighe sul Nilo e sul fiume Omo hanno rappresentato altri simboli di un’inattesa modernizzazione del Paese. Nuovi insediamenti civili intorno ad Addis Abeba hanno creato la possibilità di una nuova vita per decine di migliaia di famiglie, ma spesso il governo ha dovuto affrontare nuovi focolai di rivolta, soprattutto nelle regioni Oromo ed Hamara che contestavano alla classe dirigente il monopolio delle immense risorse del Paese.
Con la morte di Meles Zenawy non si è assistito a cambiamenti sostanziali della realtà politico-sociale del Paese e la pacificazione del Paese è rimasta solo un lontano miraggio, ancor più remoto dopo la dichiarazione dello stato di emergenza a seguito dei violenti scontri del 2016 nelle città hamara di Gondar e Bar Dar e di quelle oromo di Nazaret e Sciasciamene.
All’improvviso, senza che nessuno lo avesse potuto neppure immaginare, per porre fine alle crescenti tensioni etniche, nel marzo del 2018, il parlamento etiopico nominava un nuovo primo ministro di etnia oromo e di religione mussulmana: il 42enne Abiy Ahmed Alì, giovane rampante che non tardava a mostrare le proprie capacità di uomo nuovo della politica etiopica.
In poco tempo il primo ministro ha rinnovato la classe dirigente del Paese evitando però qualsiasi ricorso a forme di giustizialismo sommario, tipiche dei cambiamenti di regime africani. E, dal momento in cui Hailemariam Desalegn, ex Primo Ministro, gli consegnava la bandiera dello Stato come segno del cambio del potere, il nuovo leader prendeva una serie di iniziative volte a stravolgere i vecchi equilibri.
La più significativa di queste è stata sicuramente la richiesta di pacificazione con l’Eritrea che si è concretizzata in Arabia Saudita, con la firma di un trattato di pace tra i due Paesi. Tuttavia l’Etiopia, come quasi tutti i paesi africani di grandi dimensioni, è una nazione piena di contraddizioni e di difficile gestione. Gli uomini forti del vecchio Governo e gli uomini d’affari tigrini si sono raccolti a Maccalè in attesa dei futuri eventi.
Intanto, nuovi scontri sono in corso in tutto il Paese: proprio due giorni fa alla periferia di Addis Abeba ci sono state rivolte di enorme violenza che hanno costretto alla fuga migliaia di persone; scontri sanguinosi sono in corso tra gli oromo e i sidamo nei pressi della città di Awasa; mentre, da mesi, si combatte lungo tutto il confine fra gli oromo e la regione Somala d’Etiopia, scontri che hanno provocato centinaia di morti e migliaia di rifugiati. Lo Stato di Gibuti, da sempre fedele alleato e partner commerciale dell’Etiopia, sembra non vedere di buon occhio il processo di pace con l’Eritrea e alla promessa della cessione della città di Badme, simbolo della sanguinosa guerra etiopico-eritrea al regime di Isaias Afeworki, si oppongono fermamente i tigrini.
Il fatto che Isaias abbia accolto senza indugi la proposta di pace con l’Etiopia non deve stupire più di tanto perché la dittatura eritrea ha da sempre parlato di scontro con il Tigray (TPLF regime) e la proposta di pace del nuovo primo ministro è proprio in funzione anti tigrina. Insomma, una lunga, tortuosa strada in salita attende il nuovo Abiy e soltanto nei prossimi mesi potremo sapere quali saranno le reali conseguenze di questo storico cambiamento.
Noi, intanto, in questo giorno particolare, vogliamo ricordare gli eroici oppositori al regime eritreo, quegli uomini di governo che hanno pagato con la loro vita e con la sofferenza dei loro cari la speranza di un Eritrea libera e democratica.
Pier Mario Puliti
piermyfree@yahoo.it